Da Palazzo Chigi un decreto “ad listas” per Lazio e Lombardia: firme valide anche senza timbri, 24 ore di tempo per correggere gli errori e il Quirinale firma. Bersani attacca: “Usano il decreto interpretativo per aggiustare il loro pasticcio; ma il trucco c’è e si vede, è ridicolo”.
No al condono elettorale. Si al rispetto delle regole. Oggi pomeriggio saremo in tanti a Genova dove il Partito Democratico aprirà la campagna elettorale e dove tutti i democratici faranno sentire con forza le proprie ragioni contro un provvedimento che si può definire solo un trucco.” Il consiglio dei ministri ha approvato il decreto interpretativo per risolvere il pasticciaccio delle liste a sostegno di Renata Polverini e Roberto Formigoni rimaste escluse in vista delle prossime elezioni regionali. Per Palazzo Chigi basta arrivare nell’edificio dove hanno sede gli uffici dove presentare le liste entro l’ora di consegna e non all’ufficio elettorale! Un principio pe ril quale qualsiasi cittadino escluso d aun concorso o multato ora potrebbe chiedere la decretazione d’urgenza tanto che il segretario del PD Pier Luigi Bersani attacca: “C’è una parola in questo paese che bisogna affermare e ripristinare: si chiama regole. Se vogliono governare bene, altrimenti si riposino e vadano a casa perchè chi governa risponde per Paese e non per le regole di una lista. E’ evidente che si vuole arrivare comunque al risultato che gli serve per aggiustare il loro pasticcio, ma il trucco c’è e si vede, in alcuni casi fino al ridicolo. Non si deve entrare nell’ufficio competente, ma basta entrare nel palazzo grosso per far valere le firme…. Se decidono così potranno aspettarsi solo una nostra ferma opposizione”.
L’aiutino al TAR! – La nota di Palazzo Chigi (Berlusocni mand ain slaa stampa solo il minitrod ell’Interno, Roberto Maroni) afferma che il decreto “mira a consentire lo svolgimento regolare delle consultazioni elettorali regionali e a garantire coesione sociale”. Maroni, ha spiegato che non è stata effettuata alcuna modifica alla legge elettorale e che “non c’è stata alcuna riapertura dei termini: abbiamo dato un’interpretazione per consentire al Tar di dare applicazione alla legge in modo corretto”. Insomma hannos cambiato il tribunale amministrativo regionale per un telequiz, con la telefonata a casa.
Bersani prima che fosse noto il testo della vera e propria sanatoria per le numerose irregolarità commesse dal Pdl in sede di presentazione delle candidature, già nel pomeriggio attaccava: “Il centrodestra non si azzardi a parlare di complotti e a scaricare il problema, abbia l’umiltà di riconoscere che questo pasticcio non gli deriva da incuria ma da loro divisioni. Non raccontiamoci che gli asini volano: diciamoci che il partito del predellino alla prima curva si è ribaltato. Per loro fare un partito è un dopolavoro mentre noi facciamo dibattiti, riunioni, stiamo lì le nottate a discutere”.
E lapidario scriveva sulla sua pagina facebook: il governo si occupi di cose serie o se ne vada a casa.
Gli faceva eco il presidente della provincia di Roma, Zingaretti: “Esprimo la mia solidarietà a chi rispetta le regole, a chi paga le multe, a chi versa correttamente le tasse, a chi si ferma al rosso. Insomma esprimo la mia solidarietà alle persone perbene”.
Sull’impossibilità di un accordo sulla questione si è espresso anche Dario Franceschini, capogruppo Pd alla Camera, affermando che “le parole del segretario sono le parole di tutto il partito: le leggi e le regole vanno rispettate da tutti”.
Rosy Bindi, presidente dell’Assemblea nazionale del PD prima ancora della pubblicazione del testo avvisava: ”
Quando si contrappone la forma alla sostanza, soprattutto in materia di regole elettorali, si minano le fondamenta della vita democratica.
Se il testo del decreto legge sulle elezioni regionali è quello anticipato dalle agenzie di stampa siamo di fronte a norme non interpretative ma modificative e con profili di incostituzionalità. La Corte Costituzionale potrebbe quindi dichiarare l’incostituzionalità del provvedimento e tra un
anno si tornerebbe a votare. Questo accade perché in Italia ci sono un governo e una maggioranza che continuano a umiliare le regole, la Costituzione e la sovranità popolare”.
“Ci ritroviamo adesso con un ‘decreto lista’ incredibile che è chiaramente incostituzionale e pone rimedio, si fa per dire, ai due casi di Lazio e Lombardia”. Lo ha detto la candidata per il centrosinistra alla presidenza della Regione Lazio Emma Bonino, intervistata da Radio Radicale. “Ieri – ha aggiunto – abbiamo chiesto un incontro urgente al presidente del Consiglio non solo per rappresentargli la situazione complessiva ma per presentare una proposta erga omnes che fosse accettabile e che riguardasse l’intero territorio nazionale, ma niente”.www.partitodemocratico.it
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“Dal cilindro spuntò la soluzione” di MICHELE AINIS
Gira e rigira, alla fine il governo ha tirato fuori dal cilindro un coniglio vestito da decreto. Così, giusto per non perdere le sane abitudini. Anche se i decreti in materia elettorale sono vietati espressamente (art. 15 della legge n. 400 del 1988). Anche se l’escamotage della norma interpretativa suona in realtà come una frode, che in passato la Consulta ha castigato a più riprese. Funziona così: il legislatore detta una nuova regola sostenendo che fosse già racchiusa in una regola più vecchia, come il frutto nel seme. E dunque la circonda di efficacia retroattiva, la rende valida oggi per ieri. Sennonché l’esigenza di chiarire per legge il significato di una legge può sorgere quando sussistano contrasti giurisprudenziali, oscillazioni applicative, incertezze amministrative. In caso contrario è solo un trucco.
Nel frattempo la gara elettorale si è trasformata in una zuffa sulle regole. Non è la prima volta, non sarà neppure l’ultima. Senza andare troppo a ritroso, si può ricordare per esempio che le regionali del 2005 furono accompagnate da un corteo d’inchieste giudiziarie su e giù lungo la penisola, dal Piemonte alla Campania. Per quale ragione?
Firme fasulle, oppure carpite con l’inganno, oppure apposte in fogli bianchi, senza l’elenco dei candidati; anche perché di solito le liste vengono chiuse all’ultimo minuto.
Insomma ci risiamo. Generalmente gli uomini imparano dai propri errori; ma gli uomini politici hanno le orecchie d’asino. Eppure questa vicenda surreale, che in Lombardia e nel Lazio può ancora inaugurare una partita con una sola squadra in campo, dovrebbe impartirci quantomeno una lezione. Per apprezzarla, c’è però da prendere sul serio la folla di domande che in queste ore si vanno ponendo gli italiani. Qual è il peso della legalità formale rispetto all’interesse sostanziale di scegliere fra due programmi alternativi? È giusto che il rito democratico sia ostaggio d’una procedura burocratica? È accettabile che il successo d’una lista venga sancito non dagli elettori bensì dai magistrati? E c’è infine una ragione per rendere esente la politica dai rigori della legge, a differenza di quanto accade in sorte ai comuni cittadini?
Queste domande investono la natura stessa del diritto. Che tuttavia è sempre una medaglia con due facce, l’una formale, l’altra sostanziale. La prima viene scolpita a caratteri di piombo nelle Gazzette ufficiali, attraverso una litania di commi e articoli, che a propria volta disegnano procedimenti, uffici, competenze. Se non esistesse tale forma, se tutto il diritto fosse racchiuso nella parola volubile e volante del sovrano, noi non conosceremmo la linea di confine fra i torti e le ragioni, saremmo come ciechi al cospetto della legge. Ecco perché i giuristi, da Montesquieu a Calamandrei, ripetono da secoli che la forma è garanzia di libertà. Ma ne è al contempo ancella, perché la libertà – insieme all’eguaglianza – esprime lo specifico fine del diritto, la sua ragione sostanziale.
Il guaio è che noi italiani non sappiamo tenerci in equilibrio su queste due parallele. E allora ci alleviamo in seno i due figli degeneri del diritto: formalismo e sostanzialismo. Il primo indossa per esempio l’abito confezionato dalla commissione di vigilanza sulla Rai, che in nome della par condicio ha strangolato il dibattito politico che la par condicio dovrebbe viceversa garantire. Il secondo rappresenta la perenne tentazione di chi siede nella stanza dei bottoni, ma i suoi effetti sono ancora più nefasti. Nel dopoguerra – per fare un altro esempio – la Polonia approdò al regime socialista senza sostituire le sue vecchie leggi, con una semplice norma interpretativa, dove fu sancito l’obbligo d’applicarle in conformità ai dettami del marxismo.
C’è un modo per riconciliare la forma alla sostanza, in quest’ennesima vicenda di delitti elettorali? Sì che c’è, se non per l’oggi, almeno per il domani. Ma a condizione d’abbracciare una soluzione estrema, che tagli la mala pianta alla radice. Le norme in vigore impongono di raccogliere varie migliaia di firme per candidarsi alle elezioni, facendole autenticare da un notaio, da un cancelliere, da altri pubblici ufficiali. Una montagna impervia da scalare per chi non abbia alle spalle un partito organizzato, ed è infatti da questa somma vetta che s’esercita la signoria dei partiti sugli eletti. Salvo poi calpestare la regola essi stessi, quando conviene, quando non c’è tempo, quando il candidato sbuca fuori all’ultima curva del circuito. Ecco, rompiamogli in testa questa spada. Togliamo via di mezzo tutti i filtri per candidarsi alle elezioni. Costringiamo i partiti a competere con liste di cittadini fuori dai partiti. Se poi questo ne segnerà la fine, vorrà dire che se la sono un po’ cercata.
La Stampa 06.03.10
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Quella soluzione «all’italiana», di Massimo Franco
Il governo ha optato per una soluzione molto «all’italiana»: un decreto che dice di interpretare la legge elettorale, senza cambiarla. Ma ottiene comunque l’effetto desiderato: far rientrare le liste del Pdl per le regionali in Lazio e Lombardia, bocciate dalla magistratura. È l’unico modo col quale il centrodestra può sperare di ottenere non il «placet» impossibile dell’opposizione, ma la non ostilità del Quirinale; e riemergere comunque ammaccato, senza però perdere due regioni-chiave. È il risultato di una mediazione affannosa e difficile, per la quale Silvio Berlusconi e la sua maggioranza sanno di dover ringraziare Giorgio Napolitano.
Senza le obiezioni di un presidente della Repubblica comprensivo e insieme irremovibile su alcuni punti, a pastrocchio si sarebbe aggiunto pastrocchio; e la scelta del decreto sarebbe apparsa ancora più grave e inaccettabile di quanto già non sia. La soluzione che sembra a portata di mano si lascia dietro comunque una scia di polemiche, proteste e quasi certi ricorsi, perché è «tagliata» per riammettere la lista di Roberto Formigoni e quella del Pdl in provincia di Roma. Il fatto che non modifichi la legge, limitandosi a «leggerla» a favore della maggioranza, rende il testo meno indigesto al Quirinale solo sotto il profilo costituzionale. Insomma, il provvedimento cerca di somigliare a quel «male minore» che rappresenta l’unico sbocco plausibile di una vicenda figlia del pressappochismo dei dirigenti del Pdl. D’altronde, le alternative promettono di risultare più traumatiche. Il rischio è quello di una forzatura da parte di palazzo Chigi, che tenderebbe i rapporti con l’opposizione e con Napolitano, costringendo il capo dello Stato a non firmare il decreto: una prospettiva tale da aprire un conflitto istituzionale in piena campagna elettorale. Oppure si arriverebbe all’esclusione definitiva del centrodestra in due regioni- chiave: un esito formalmente ineccepibile, ma che dal punto di vista politico falserebbe il voto del 28 e 29 marzo.
Si tratta di un salvataggio in extremis per il quale la coalizione berlusconiana paga un prezzo politico e d’immagine alto. E questo nonostante sia un contributo ad evitare una delegittimazione delle elezioni; e lacerazioni peggiori in Parlamento e nel Paese. Il Pd e l’Udc denunciano, e non gli si può dare torto, «il precedente gravissimo che si crea». Non è scontato che sia un annuncio di barricate, pure evocate dall’Idv di Antonio Di Pietro e dai radicali. L’impressione è che serva a ribadire che del pasticcio e della sua soluzione rabberciata è responsabile solo lo schieramento berlusconiano. Ad altri tocca il compito ingrato di limitare i danni, per quanto è possibile.
Il Corriere della Sera 06.03.10