La giornata di ieri dedicata al cosiddetto sciopero degli stranieri merita una riflessione aggiuntiva sulla natura del tutto particolare della protesta, e sulla mancata adesione allo sciopero (che pertanto “sciopero” in senso tecnico non è stato) delle strutture sindacali nazionali. Il PD, al contrario, ha aderito, sulla spinta del solito Pippo Civati che è riuscito a far capire come si trattasse di una battaglia politica dal valore non solo simbolico, ma strategico. Infatti, è stata forse la prima occasione recente in cui questioni legate a diritti del lavoro, che si riverberano come sempre accade in aspetti più ampi del vivere sociale, vengono affrontate
in maniera non corporativa, ma universalistica.
L’ultimo esempio in questo senso si era avuto in occasione della manifestazione organizzata dalla CGIL di Cofferati in difesa dell’articolo 18. Era quello tuttavia il canto del cigno del sindacalismo del Novecento, che si infrangeva nella contraddizione delle parole del leader: l’articolo 18 veniva presentato alla stregua di un diritto umano,ma le misure per estenderne la portata – il referendum successivo promosso da Bertinotti – erano bollate come antieconomiche,
facendolo rimanere un diritto corporativo, riservato a chi facesse parte di specifici gruppi di lavoratori. Le manifestazioni di ieri, al contrario, suggeriscono un approccio nuovo alla lotta per i diritti, che non devono più passare per l’appartenenza ad una specifica corporazione. Esistono stranieri operai e stranieri professionisti, stranieri nel settore tessile e in quello metallurgico. Secondo il protocollo sindacale, l’arma dello sciopero si usa nel conflitto economico a seconda del settore in cui il conflitto è in corso, mentre lo sciopero generale (ossia in più di un settore contemporaneamente) è molto più raro ed ha di norma ragioni politiche. Uno sciopero come quello degli immigrati, dal sostanzioso contenuto economico – come giustamente sottolinea Civati ci vogliono più ispettori del lavoro, e non certo le ronde, per far aumentare la sicurezza – ma non limitato ad un settore economico specifico, va al di là della norma liturgica del sindacalismo del Novecento. Eppure, un sindacato che non volesse sentirsi condannato al lento e inesorabile declino (ormai solo il 19%dei lavoratori attivi nel settore privato sono sindacalizzati) dovrebbe cogliere al volo i nuovi bisogni di rappresentanza economica anche fuori dagli schemi del passato. Le occasioni, infatti, non mancherebbero per costruire un sindacalismo universalista: c’è un altro sciopero “anomalo”, là fuori, che aspetta solo di essere organizzato, da mobilitatori capaci, per ottenere diritti negati, salari e condizioni dignitose: quello dei lavoratori precari.
L’Unità 02.03.10
Pubblicato il 2 Marzo 2010