Le prime ore del 27 febbraio sono trascorse in mezzo a una strana quiete: una bella luna piena rischiarava gran parte del territorio cileno, dal Pacifico soffiava una brezza rinfrescante e niente lasciava presagire le ore terribili che si avvicinavano dalle profondità dell’oceano.
Alle 3.45 il Cile dormiva, a Viña del Mar ancora non si erano spenti gli echi del quinto giorno del Festival della canzone, a Santiago, Concepción o Valparaíso i più giovani uscivano dalle discoteche o dalle sale da ballo.
Improvvisamente, la terra ha cominciato a muoversi con una violenza inusitata. Noi cileni abbiamo una sorta di cultura del terremoto e sappiamo che i grandi cataclismi cominciano in modo lieve e continuano con un infernale crescendo fino alla consumazione della tragedia. Questo terremoto è stato diverso: è cominciato scaricando tutta la sua violenza, grado 8,5 della scala Richter, e ha continuato in questo modo per due minuti, abbattendo case, distruggendo ponti, spezzando in due strade, sradicando tralicci dell’alta tensione, seminando il panico e la desolazione di fronte a noi cileni, che non potevamo far altro che restare in piedi nell’oscurità e urlare per avvertire i nostri di mettersi nei punti più sicuri degli edifici.
Sono stati due minuti interminabili, tra finestre che cadevano, cornicioni che si staccavano, chiese che perdevano i campanili, muri che scricchiolavano e poi venivano giù, e il terreno che si apriva con fessure ampie e profonde. Per i cileni della costa la grande paura era quello che poteva succedere: lo tsunami che in pochi minuti ha cancellato dalla mappa la bella località balneare di Iloca, con le onde che ritirandosi hanno lasciato un panorama di case distrutte e i leoni del circo che galleggiavano dentro a una gabbia.
Ora, a meno di un giorno dalla tragedia, sappiamo che la bella città di Concepción, la “Perla del Sud”, quasi non esiste più, che la parte antica e coloniale di Curicó è ormai solo un ricordo, e non si arrestano le telefonate di amici che mi raccontano delle devastazioni nelle loro case o luoghi di lavoro. E la terra continua a tremare, nelle repliche che si succedono senza interruzione e con diversa intensità fin dal momento in cui il grande scossone ha raso al suolo cinquecentomila case e ne ha danneggiato un altro milione.
Eppure, nel pieno della tragedia, superando la paura, le cilene e i cileni hanno dimostrato una volta di più il loro aspetto di popolo organizzato e solidale. Al momento in cui scrivo queste righe, il conto delle vittime, per i crolli o per crisi cardiache, ammonta approssimativamente a circa settecento persone. Poche, considerando le proporzioni del disastro; e le testimonianze rivelano che la gente ha seguito disciplinatamente le istruzioni della polizia e dei pompieri e si è allontanata rapidamente dai luoghi più a rischio, formando catene umane per aiutare gli anziani, i bambini, i più deboli.
Tranne qualche eccezione non ci sono stati saccheggi (anche se i due casi di assalti a supermercati sono stati enfatizzati dalla stampa scandalistica) e tutto il Paese apprezza l’atteggiamento della presidente Michelle Bachelet, che negli ultimi giorni del suo mandato si è assunta, dal momento stesso del terremoto, il compito di dirigere le operazioni di soccorso.
All’alba di ieri, 27 febbraio, il Paese ci ha mostrato il suo territorio lacerato, e tra i volontari che partecipavano cercando sopravvissuti tra le rovine si avvertiva l’eco dei versi del poeta Fernando Alegría: “Quando ci scuote un temporale o ci sferza un terremoto, quando il Cile non può essere sicuro delle sue mappe, io dico infuriato: Viva il Cile, merda!”.
Così, in questo Paese della Fine del Mondo, sono i cileni: caparbi, rassegnati e capaci di superare i momenti più terribili.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
La Repubblica 01.03.10
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“Lo spirito di una terra che non si arrende”, di Bruno Arpaia
Un’esilissima striscia di terra lunga 4.200 chilometri, lungo la quale si succedono implacabili deserti, ghiacciai e laghi cristallini, foci di fiumi maestosi, ghiacci quasi antartici. Il Cile è questo: un paese vario e meraviglioso, che però, sfortunatamente, si trova al centro della cosiddetta “cintura di fuoco”, dove lo scontro fra la placca tettonica di Nazca e quella sudamericana provoca un terremoto altamente distruttivo in media ogni dieci anni.
I cileni lo sanno bene, non dimenticano la loro storia, non dimenticano quel terremoto che distrusse Santiago nel 1647 e che ispirò un bellissimo racconto di Kleist. I cileni non dimenticano il sisma del 1960 a Valdivia, il più forte del Novecento, con i suoi 9,5 gradi della scala Richter e i suoi 1.700 morti, né quello del 1985. Perché i cileni sono, sì, un popolo latino, aperto, solidale ed espansivo, ma sono anche quasi tedeschi quanto a scrupolosità e previdenza. Perciò, dai deserti di salnitro del nord ai paesaggi montani della Cordigliera o dell’isola di Chiloé, la stragrande maggioranza delle case e dei palazzi viene costruita da decenni secondo rigorose norme antisismiche. Anche per questo il terremoto di ieri non ha provocato decine di migliaia di vittime.
E tuttavia, in questi momenti, penso alle sterminate città di casupole e di baracche attorno alla capitale, a Valparaíso o a Viña del Mar, dove non ci sono palazzi, né case vere e proprie. Penso ai loro abitanti poverissimi e fieri, anche se, per gli economisti neoliberisti e per il Fondo monetario internazionale, la loro povertà non esisteva e non esiste. Quelle baracche di lamiera, mi dico, saranno state certamente distrutte; e anche se lì quasi nessuno sarà rimasto vittima di una trave caduta, perché quelle baracche non hanno travi, né acqua potabile, né elettricità, il terremoto avrà tolto a quei poveri anche il pochissimo che avevano.
Penso, chissà perché, a una tersa mattina dell’inverno australe, ai pellicani che contendevano ai pescatori il pesce appena pescato alla foce del BioBio, nei pressi di Concepción, l’epicentro del terremoto. Penso all’Università di quell’accogliente capoluogo, dove avevo tenuto una conferenza, e che adesso sta bruciando. Penso a Parral, a pochi chilometri da lì, dov’era nato un bambino di nome Neftalí Reyes che avrebbe vinto il Nobel con il nome di Pablo Neruda. E credo, soprattutto, nella capacità dei cileni di risollevarsi da questa tragedia, di dimostrare il loro spirito solidale, mai sconfitto da tanti anni di dittatura. So per certo che, come nel racconto di Kleist, «in quei momenti atroci nei quali tutti i beni terreni degli uomini vanno perduti e la natura tutta minaccia di sprofondare», lo spirito dei cileni «sboccerà come un bel fiore». «Sui campi» racconta Kleist, parlando del dopoterremoto del 1647, «si vedevano a perdita d’occhio uomini d’ogni ceto gli uni accanto agli altri; principi e mendicanti, matrone e contadine, impiegati e operai, monache e frati; e tutti si compiangevano, porgevano aiuto a vicenda, spartivano con gioia ciò che avevano salvato per il sostentamento della vita, come se la sventura comune avesse fatto di tutti i salvati una famiglia sola». Quella famiglia di cileni, inutile ribadirlo, è anche la nostra.
Il Sole 24 Ore 01.03.10