“Quand´ero bambina mi arrampicavo su un albero, sul ramo più vicino alle stelle Non ne sono più scesa”. In media hanno cinquant´anni, sposate e con figli Vengono da ogni angolo del pianeta (ma non dall´Italia) e sanno bene quanto ancora oggi sia difficile per una donna emergere nel mondo della scienza. Ora cinque di loro riceveranno a Parigi un premio internazionale per i risultati raggiunti Qui raccontano come ce l´hanno fatta. Vanno scovate, portate alla luce, ma ci sono. Hanno in media cinquant´anni, sono sposate (solo il cinque per cento non lo è), e l´ottanta per cento ha figli. Le Madame Curie esistono, anche nei paesi dove uno non s´immagina, a sud e a est del mondo. In Africa, in Sudamerica, in Asia. Donne dedite alla scienza, che raggiungono l´eccellenza, che s´impegnano. E che una volta l´anno vengono premiate. Non per il loro sesso, né per il loro femminismo, ma per la qualità della loro ricerca. È un riconoscimento, For Women in Science, assegnato dall´Unesco e dalla Fondazione L´Oréal e che in dodici anni ha certificato l´eccellenza e incoraggiato il talento di novecento donne: 62 laureate di 28 paesi e 864 borsiste di 93 nazionalità. E che spesso scova in anticipo i futuri premi Nobel come è capitato con l´americana Elizabeth Blackburn e l´israeliana Ada Yonath, vincitrici nel 2008, e un anno dopo Nobel per la medicina e la chimica. E che dicono: «Le donne s´interessano alla scienza, ma a parte il sostegno, avrebbero bisogno di più fiducia e di una maggior esperienza internazionale».
Anche perché un recente studio Usa del Center for American Progress mostra che le scienziate sposate con figli hanno rispetto agli uomini sposati con figli il trentacinque per cento in meno delle possibilità di ottenere una cattedra universitaria dopo il dottorato. Infatti sono state premiate anche scienziate in età da pensione: Marianne Grunberg-Manago, ottantuno anni, e Thressa Campbell Stadtman, ottanta. L´inglese, Anne McLaren, figlia di industriali illuminati, autrice della prima fecondazione in vitro, invece è morta in un incidente d´auto nel 2007, sei stagioni dopo aver avere ottenuto il riconoscimento a settantaquattro anni.
Tutte ammettono l´importanza di avere avuto una famiglia che le ha incoraggiate. La chimica africana, Tebella Nyokon, nata in Lesotho: «A giorni alterni andavo a scuola e portavo a pascolare le pecore. Mio padre, che faceva il pastore, credeva in me, anche se non capiva cosa stessi studiando. Mentre i miei coetanei sostenevano che la scienza non era roba da donna». La chimica giapponese Akiko Kobayashi: «Mia madre era insegnante di musica, mio padre fisico, il primo libro che ho letto è stata la biografia di Madame Curie». La chimica russa Eugenia Kumacheva: «Mio padre, appassionato di scienza, mi ha insegnato a fare domande e a essere curiosa». La fisica inglese Athene M. Donald: «Mia madre, che ha lasciato la scuola a quindici anni per via della guerra, voleva assolutamente che io e mia sorella potessimo frequentare l´università». La fisica giapponese Fumiko Yonezawa: «Mia madre era bravissima in geometria e avrebbe voluto fare l´università, ma allora le donne non erano ammesse e se anche lo fosse stata, mio nonno glielo avrebbe impedito per paura che poi non trovasse un marito. Già da piccola tormentavo tutti con le domande: perché la luna non ci casca addosso, qual è la stella più lontana, dove finisce l´universo?».
Nella storia del premio colpisce l´assenza dell´Italia, che non ha nessuna segnalazione, eppure vanta un premio Nobel come Rita Levi Montalcini. Giovedì a Parigi cinque professoresse ritireranno il premio. Le Madame Curie del mondo quest´anno sono: l´egiziana Rashika El Ridi, l´americana Elaine Fuchs, la messicana Alejandra Bravo, la filippina Lourdes C. Cruz, la francese Anne Dejean-Assemat. L´egiziana El Ridi lavora da tempo a un vaccino contro la bilharziosi, una malattia parassitaria tropicale detta anche la “febbre della lumaca” che colpisce più di duecento milioni di persone nel mondo e causa duecentottantamila decessi l´anno, soprattutto tra i bambini. È una malattia infettiva, devastante quanto la malaria, che si prende bagnandosi o bevendo acqua inquinata dal parassita, presente soprattutto nell´Africa subsahariana. Rashika ottiene il dottorato all´Accademia delle scienze di Praga nel ´75, per cinque anni insegna all´università del Cairo dove nell´86 diventa titolare. Ora è professoressa d´immunologia nel dipartimento di zoologia, alla facoltà di scienze. Spiega: «Mi turba sapere che l´uomo è pronto a sbarcare su Marte, ma è incapace di sviluppare un vaccino contro i virus tropicali. Spero di farcela tra cinque anni. Una donna non ha molte scelte, per lei è più difficile mantenere in equilibrio figli, famiglia e lavoro, ma dobbiamo comprensione anche a chi sta accanto a noi».
L´americana Elaine Fuchs è stata scelta per la sua ricerca sulle staminali nel trattamento delle malattie della pelle. Si diploma in Illinois nel ´72, nel ´77 dottorato a Princeton e al Mit, dal 2002 è all´università Rockefeller di New York, dove dirige il laboratorio di biologia cellulare dei mammiferi. Sostiene che sono state le donne della sua famiglia a indirizzarla verso la scienza. «Mia zia è biologa e femminista, mia sorella è neuroscienzata, mia madre pensava potessi riuscire nella chimica, ma io mi vedevo istitutrice». La sua prima sfida è stata sullo stipendio. Professoressa titolare all´università di Chicago scopre che guadagna meno di un neo maestro-conferenziere. «Mi sono detta: non posso accettarlo, fate in modo di rimediare. La differenza tra i sessi nella scienza ancora esiste. Le donne sono meno rappresentate a livello di responsabilità e non possono mettere in luce le loro qualità».
La messicana Alejandra Bravo, biologa, si è segnalata per la comprensione del meccanismo d´azione di una tossina batterica che agisce come insetticida eco-compatibile. Un´alternativa verde ai pesticidi. In Messico da ricercatrice non aveva né laboratorio né strumenti, allora è andata all´estero. Dottorato in biochimica nell´89, nel ´91 si trasferisce con una borsa di studio in Belgio in un´azienda leader del settore, e poi all´istituto Pasteur di Parigi. Tornata in Messico, spalleggiata da un´équipe determinata, crea un laboratorio con una collezione di batteri Bt (Bacillus thuringiensis) estratti da un campione sul territorio. Ora lavora al dipartimento di microbiologia molecolare Unam all´istituto di Cuernavaca. Le sue parole d´ordine: «Ordine, disciplina, perseveranza».
La filippina Lourdes J. Cruz viene premiata per la scoperta dei peptidi neurotossici, per il suo studio sui molluschi marini che vivono degli oceani tropicali, il cui veleno (per immobilizzare le prede) serve da antidolorifico, in alternativa alla morfina, e da agente farmacologico per curare epilessia e altre malattie neurologiche. Dottorato in Iowa (Usa), lavora presso una ong del suo paese, è preside dall´80 all´86 del dipartimento di biochimica e biologia molecolare delle Filippine e ora è all´università dell´istituto di scienze marine a Quezon. Nel 2001 ha fondato con donazioni private un´associazione (Rural Linc) per debellare la povertà nelle zone contadine del suo paese. Spiega che ne ha sentito il bisogno. «Ad un certo punto mi sono chiesta: io mi sono data alla scienza, ma cosa ho fatto per aiutare i miei concittadini? Nelle nostre campagne ci sono ancora molte tribù che vivono di pesca e di agricoltura, ma con un equilibrio sociale molto instabile».
La francese Anne Dejean-Assemat si segnala per lo studio dei meccanismi molecolari e cellulari all´origine di alcuni tumori. Anne è riuscita a capire i nuovi fattori per cui una cellula malata comincia a moltiplicarsi in maniera incontrollata. È stata la prima a dimostrare che il virus dell´epatite B può avere una relazione diretta con l´insorgere del tumore al fegato. E questo ha portato a nuovi protocolli di cura. Si laurea all´università Pierre e Marie Curie di Parigi dove consegue il dottorato nell´83. Due anni più tardi è all´Inserm (Istituto nazionale francese della salute e ricerca medica) dove nel ´91 è nominata direttrice. Dal 2003 dirige il laboratorio d´organizzazione nucleare di oncologia dell´istituto Pasteur di Parigi e l´Unità 579 dell´Inserm. «Devo tutto ai miei genitori. A mia madre, professoressa di matematica e militante dei diritti delle donne in un consultorio, a mio padre, ingegnere impegnato in un´associazione locale in difesa dell´ambiente. Mi hanno insegnato l´indipendenza, la porta di casa era sempre aperta, le discussioni erano animate, questo mi ha dato coraggio e mi ha aiutato a costruire un forte senso critico, anzi autocritico. Anche se i miei genitori non ci sono più, resta l´educazione che mi hanno dato. Ci vogliono tre cose per fare questo mestiere: stima per il proprio lavoro, sapere che saremo oggetto della valutazione degli altri, accettazione della competizione internazionale, che ci fa pensare che forse gli altri non ne sanno quanto noi, per cui meglio continuare a darci dentro. La corsa al consumo e al risultato è pericolosa, bisogna ritrovare gli ideali e non disperdere la ricerca».
Ha detto un´altra premiata, l´astrofisica brasiliana Beatriz Barbuy: «Quando ero bambina mi arrampicavo su un albero di prugne gialle, sul ramo più alto e più vicino alle stelle. In un certo senso non ne sono più scesa, anche perché mio padre ha sempre insistito che avrei dovuto lavorare per non dipendere da altri». Così, piccole scienziate crescono.
La Repubblica 28.02.10