attualità, politica italiana

«Il vecchio che torna», di Barbara Spinelli

E’scritto nel Qohélet, poema biblico di massima saggezza, che «ciò che è, già è stato. Ciò che sarà, già è». Si applica atrocemente all’Italia, e manda in rovina le parole che da 17 anni ci accompagnano, sempre più insipide: Transizione, Seconda Repubblica, Nuovo, Miracolo, Riforma. Oppure: politica del fare, dell’efficienza. Nell’intervista a Fabio Martini, Rino Formica, ex uomo di Craxi, constata un «collasso dello Stato.

Snervato nei suoi gangli vitali. Con un’aggravante: nell’opinione pubblica cresce un disgusto senza reazione, si attendono fatalisticamente nuovi eventi ancora più squalificanti, il perpetuarsi di un’Italia regno degli amici, delle spintarelle, delle percentuali».

L’avvento del Nuovo, promesso dopo lo svelamento di Tangentopoli nei primi Anni 90, era dunque un pasticciaccio, un maledetto imbroglio. Non: «Ecco, faccio nuove tutte le cose», ma: «Faccio tutte le cose vecchie». Non siamo in mezzo al guado, il viaggio non è mai iniziato. Come nell’Angelo sterminatore di Buñuel, per uscire dalla stanza-prigione bisogna ripercorrere gli esordi, capire come si è entrati nell’imbroglio e ci si è rimasti.

Mani Pulite nacque e crebbe come evento davvero inedito, per l’Italia, in simultanea con la battaglia condotta a Palermo contro i patti della politica con mafia e camorra: una pantera la mafia, una volpe la camorra, disse Falcone a Giovanni Marino di Repubblica, quattro giorni prima di essere ucciso. Figlie, l’una e l’altra, di «un’omertà che si è trasformata in memoria storica di uno Stato che non ti garantisce». È significativo che l’unico commento di Silvio Berlusconi sul marciume che torna a galla sia: «Il male principale della democrazia in Italia è la giustizia politicizzata». Non è il marciume, ma il dito che lo indica. Non è il fare che si svela malaffare, il predominio dell’opaco sul trasparente, il familismo amorale che torna, la ’ndrangheta che non fidandosi più di nessun mediatore entra in Parlamento. Il capo del governo è un avatar della Prima Repubblica: pur travestendosi, pur conquistando folle e voti, «fa vecchie tutte le cose». La sua rivoluzione, come accade nelle rivoluzioni giacobine, ha raccattato il potere a terra per salvarlo. Il presidente della Consulta Francesco Amirante ha detto in pratica questo, giovedì: sono i giacobini e non i democratici a idealizzare la sovranità assoluta dell’elettore. Le costituzioni esistono perché del popolo non ci si fida del tutto, e la Consulta rappresenta un «popolo trascendente» che guardando lontano frena se stesso.

Quando nacquero le due battaglie ­ Mani Pulite a Milano, l’antimafia a Palermo ­ si capì che tutto in Italia si teneva: l’intreccio tra politica e affari a Nord, tra politica e mafia a Sud. Le due città divennero simbolo dell’Italia peggiore e migliore, ambedue sperarono molto prima di disperare, ambedue scoprirono di portare dentro di sé la «memoria storica di uno Stato che non ti garantisce». Dicono che Tangentopoli oggi è diversa, anche se il cittadino non vede grandi differenze. Per alcuni è peggio («Noi non abbiamo mai scardinato lo Stato», assicura Formica), visto che allora si rubava per i partiti e ora si ruba per sé. Come se rubare per la politica fosse un’attenuante, e non l’obbrobrio che ha distrutto il senso delle istituzioni e dello Stato, aprendo strade ancor più larghe alle ruberie del tempo presente.

Dicono anche che l’Italia è congenitamente votata alla corruzione. Anche questo è falso, perché l’Italia con Mani Pulite cominciò a sperare veramente in una rigenerazione. Enorme fu la partecipazione ai funerali di Falcone, il 25 maggio ’92. Ci fu il movimento dei lenzuoli, speculare a Mani Pulite. Nel suo bel libro L’Italia del tempo presente, Paul Ginsborg cita un documento stilato in una veglia di preghiera nella chiesa palermitana di San Giuseppe ai Teatini, il 13 giugno 1992, dopo l’eccidio di Falcone. Il documento s’intitolava «L’Impegno», e oggi dovrebbero leggerlo e rileggerlo gli studenti, gli imprenditori, i servitori dello Stato, i politici, per mostrare che l’Italia ha qualcos’altro nelle ossa, oltre alla melma. Se torna a corrompersi, è anche perché ai vertici manca l’esempio. «Entri nella mafia se ti senti, e sei, nessuno mischiato con niente», dice il linguaggio malavitoso.

Vale la pena ricordare alcuni brani, dell’Impegno palermitano: «Ci impegniamo a educare i nostri figli nel rispetto degli altri, al senso del dovere e al senso di giustizia. Ci impegniamo a non adeguarci al malcostume corrente, prestandovi tacito consenso perché “così fan tutti”. Ci impegniamo a rinunziare ai privilegi che possano derivare da conoscenze e aiuti “qualificati”. Ci impegniamo a non vendere il nostro voto elettorale per nessun compenso. Ci impegniamo a resistere, nel diritto, alle sopraffazioni mafiose…». Questo fu, ed è, il Nuovo. Anche Milano, atavicamente maldisposta verso lo Stato, sentì sorgere in sé un ricominciamento. Corrado Stajano la descrive non più piegata sui propri affari privati ma «infiammata di un entusiasmo liberatorio», nel febbraio ’92, grata ai magistrati che ne scoperchiavano il malaffare. Da allora «si è indurita, non ha saputo discutere le cause vicine e lontane di una corruzione che ha macchiato tutti i partiti politici e tutti gli strati sociali (…), non ha saputo fare i conti con se stessa. Ha cancellato quel che è successo. O meglio, ha preferito dirsi che nulla è successo» (Stajano, La città degli untori, Garzanti 2009).

Fu da quel vuoto che balzò fuori la figura di Berlusconi, agguerritissimo addomesticatore di istinti, creatore di mondi e show consolanti. Lui sapeva la forza di certi gusti, aveva addirittura forgiato nuovi stili di vita a Milano-2, lontano dalla pazza folla cittadina, aveva creato addirittura una televisione per le new town e da lì partì, promettendo nel ’94 un «nuovo miracolo italiano». Un miracolo non per fermare i comunisti, ma quel popolo dei lenzuoli e dell’entusiasmo liberatorio che minacciava mafie e vecchi-nuovi padroni del vapore. Si continuò a rubare, senza neanche più fingere passioni politiche. La Lega smise gli osanna a Mani Pulite perché rivalutare le istituzioni voleva dire contribuire di tasca propria al bene comune, e solo gli imbecilli lo fanno.

Non si aprì l’era della trasparenza, della riforma dello Stato. Se ne parla di continuo ma il verbo è performativo, come dicono i linguisti: basta dire e il fare già c’è. Paradossalmente, nell’era di Berlusconi tutto si decide nelle aule di giustizia: non è da escludere che proprio questo egli voglia, per avere un nemico esistenziale.

Forse il Nuovo non è venuto perché debellare la corruzione è «impresa titanica», come sostiene Luca di Montezemolo: perché coinvolge non solo i politici ma un’intera classe dirigente. Forse per questo siamo immobili non in mezzo al guado, ma penzolanti nel vuoto come nel ’92, sfiduciati e però assetati di ricominciare. Difficile credere che non esista anche questa sete, accanto al disgusto fatalista. La sete rispuntata dopo il fascismo, quando Luigi Einaudi disse, il 27 luglio ’47: «Esiste in questo nostro vecchio continente un vuoto ideale spaventoso».

Mi ha colpito una frase, detta all’Aquila domenica scorsa da un manifestante delle chiavi, il direttore dell’Accademia delle Belle Arti Eugenio Carlomagno: «Chiusi nelle case antisismiche, nei moduli abitativi provvisori, abbiamo capito che non sapevamo dove andare: non c’è un teatro, non c’è una biblioteca, non ci sono più i bar del centro. Ci siamo accorti di essere persone che debbono solo comprare cibo al supermercato, mangiare e guardare la televisione. Abbiamo detto basta». Non è ancora L’Impegno della chiesa palermitana, ma si ricomincia anche così: uscendo dal privato delle new town, spegnendo le tv del Truman Show, riprendendosi la pòlis.

Riscoprendo che la politica può fare la differenza, non in peggio ma in meglio, e che a quel punto potremo edificare la memoria di uno Stato che ti garantisca.

da www.lastampa.it