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"Nascere al sud penalizza gli studenti", di Flavia Amabile

I giovani meridionali hanno un anno e mezzo di ritardo nella preparazione rispetto a quelli del Nord e sanno quello che sa uno studente immigrato.
Sei uno studente in una scuola del Sud? Basta questo per avere un anno e mezzo di ritardo nella preparazione rispetto a uno studente del Nord. Uno studente italiano, però. Perché il livello di conoscenze dei ragazzi meridionali equivale più o meno a quello degli stranieri nelle scuole del Nord. Un quindicenne su tre di quelli che ogni giorno entrano nelle classi dalla Campania alla Calabria, isole comprese, non raggiunge la soglia minima delle conoscenze definita a livello internazionale.

Un risultato drammatico, anche perché prescinde da ogni altra considerazione. Lo studente non può farci molto, la pochezza della sua preparazione è condizionata unicamente dal contesto, dal semplice gesto di frequentare una qualsiasi scuola del Sud. La Fondazione Agnelli ha analizzato anche quest’anno lo stato della scuola in Italia nel suo Rapporto che verrà presentato ufficialmente oggi e il quadro che emerge non è affatto lusinghiero. L’indagine si basa sui dati Ocse-Pisa, l’esame condotto tra gli studenti delle secondarie dei Paesi Ocse per confrontarne le conoscenze.

Gli studenti italiani delle superiori sono fra i pochi al mondo ad avere preparazioni molto diverse semplicemente per aver frequentato una scuola piuttosto che un’altra. E si parla di divari fra istituti pubblici, non privati. Le cause – sottolinea il rapporto – sono per il 15% legate alle differenze tra regioni, e per il 37% a differenze tra scuole in una stessa regione. Insomma, «i fattori contestuali – quelli scolastici in misura maggiore di quelli regionali – giocano più delle capacità personali». In altre parole anche un genio inserito in una scuola scadente non potrà raggiungere risultati eccellenti. E il merito non sempre risulta premiato.

Non è che tutto il sud sia allo stesso livello e tutto il nord meraviglioso. A Trento e Bolzano «non importa a quale scuola sei iscritto, otterrai comunque dei buoni risultati», spiega il rapporto. Con uno svantaggio: costano, sono inefficienti: in quelle del Trentino per ogni punto Pisa si spendono 165 euro. In Veneto dove i risultati in termini di preparazione sono comunque fra i più soddisfacenti in Italia di euro se ne spendono 113 per ogni punto Pisa. In Puglia e Campania accade l’opposto: non importa in quale scuola ci si iscrive, sono tutte più o meno mediocri. E per quella mediocrità in Campania si spendono 126 euro per ogni punto Pisa ottenuto dagli studenti, un po’ di meno in Puglia, 119 euro. Sicilia, Sardenga e Basilicata, invece, sono le regione in cui si spende tanto e si ottiene una preparazione del tutto inadeguata.

Diverso è tra le regioni anche il livello di spesa. Al Sud si è sempre al di sopra del 4% del Pil con una punta del 6% in Calabria. Al Nord, invece, (almeno nelle regioni a statuto ordinario) la quota di Pil destinata all’istruzione scolastica è sempre inferiore al 3% con il minimo di spesa in Lombardia (2,2%) e in Emilia Romagna (2,3%). E’ da queste differenze tra regioni che dovrà dipendere anche ogni decisione futura sul federalismo scolastico, ricorda il rapporto. Le differenze nella spesa dipendonono da vari fattori. Le regioni meno popolate avranno plessi di minori dimensioni. In alcune regioni c’è maggiore ricorso al tempo pieno che rappresenta un notevole aumento dei costi: sono quelle del nord dove maggiore è il numero di donne che lavorano, ma anche in Basilicata. E, quindi, come avverte il rapporto «un quadro così articolato richiede un serio sforzo analitico per essere compreso in tutte le sue sfumature, e certamente mal si adatta a una cornice politica smaniosa di creare rappresentazioni duali».
La Stampa 24.02.10

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“Dimmi dove studi e ti dirò cosa sai, il Nord “supera” di due anni il Sud”, di MARIA NOVELLA DE LUCA

È la scuola dei divari, delle distanze, delle diseguaglianze. Immense, siderali a volte. Sociali, tecnologiche, territoriali. In cui Nord e Sud non sono mai stati così lontani, le competenze mai così dispari, e dove la famiglia di provenienza, la scuola di riferimento, il suolo in cui si nasce determinano tutto. Cioè il futuro di un giovane. La sua chance o meno di entrare nel mondo del lavoro, di crearsi una vita propria, di essere autonomo, protagonista. Perché, oggi come ieri, in Italia l’appartenenza e il ceto contano forse più dei talenti e delle capacità individuali. “Dimmi in che scuola vai e ti dirò quanto ne sai”: è in questo titolo-slogan che si condensa uno degli elementi chiave del Rapporto sulla scuola in Italia 2010 della Fondazione Giovanni Agnelli, annuale e densa ricerca sullo stato della nostra istruzione, che in questa edizione sottolinea e mette in luce le “fratture” del nostro sistema scolastico.

Fratture che vogliono dire poi vite e destini assai diversi, tra i giovani del Nord e quelli del Sud, ma anche tra i ragazzi italiani e quelli europei, e poi ancora tra gli italiani e gli immigrati. Perché ci sono scuole di serie A e scuole di serie B, anzi forse di serie Zeta, tanto grande è diventato il fossato tra le cosiddette “due Italie”. Un esempio? Essere uno studente del Nord vuol dire avere, in partenza, 68 punti di vantaggio, secondo il calcolo delle competenze stabilito dall’Ocse-Pisa, (Programme for International Student Assessment) rispetto a un coetaneo del Sud. E questo perché, a parità di spesa pubblica, le scuole di alcune regioni settentrionali (Veneto, Emilia Romagna, Trentino, Lombardia) sono infinitamente migliori di quelle di molte regioni meridionali. Non solo: oggi un quindicenne che studia in un istituto del Sud, ha una preparazione uguale a quella di tredicenne del Nord: è dunque quasi due anni indietro sui “livelli di competenza”.

E il 30% degli allievi meridionali non raggiunge affatto la “soglia minima di competenza” che, secondo gli standard europei, è il primo gradino per non diventare emarginati ed esclusi. Vuol dire che per quella fetta di ragazzi le porte sono già chiuse, quasi senza speranza. Ma questo non è l’unico grande divario della scuola italiana, come sottolinea Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, che oggi presenterà la ricerca con il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. Perché a diseguaglianze antiche e mai superate, che portano i figli delle classi abbienti a scegliere i licei e poi l’università, mentre i figli delle classi più modeste restano “confinati” negli istituti professionali, ci sono divari nuovi e contemporanei. Quello tecnologico e digitale, ad esempio. Che dimostra quanto i teenager italiani siano simili ai loro coetanei europei per computer presenti in casa (il 91% degli studenti quindicenni ne possiede uno), ma quanto poco invece le nuove tecnologie siano diffuse a livello accademico. Soltanto il 50% degli studenti italiani utilizza un computer a scuola contro oltre il 60% della media europea, con una differenza territoriale che segnala un computer ogni 5 studenti nella provincia di Bolzano e uno ogni 27 da Napoli in giù. Ma forse il divario digitale più forte è quello tra allievi e insegnanti.

Sarà perché i prof italiani, per l’Ocse, sono tra i più anziani d’Europa, la realtà è che soltanto il 24,6% è favorevole all’uso del computer in classe, a fronte di uno striminzito 6% che lo ritiene un supporto insostituibile. Ma oltre a evidenziare le fratture, il rapporto della Fondazione Agnelli rilancia il dibattito sul “federalismo scolastico”. Uno scenario prossimo, di cui si evidenziano possibilità e rischi, come l’abbandono da parte dello Stato delle regioni più deboli. Allargando, quindi, il già profondo fossato esistente.

La Repubblica 24.02.10