Benvenuti nella Repubblica dei corrotti: c’è posto per tutti e non c’è neanche bisogno di mettersi ordinatamente in fila, tanto nessuno la rispetta. Ma come abbiamo fatto a guadagnarci questo speciale passaporto? Perché siamo inquilini d’uno Stato senza Stato, ha osservato ieri Luca di Montezemolo. E perché in questo vuoto prosperano l’inefficienza pubblica e l’illegalità privata.
Ma prospera inoltre un paradosso, giacché nel nostro caso il vuoto dipende in realtà dal troppo pieno. Non è che ci abbia lasciato orfani lo Stato: semmai è cresciuto a dismisura, è diventato un elefante impietrito dalla sua stessa mole. Non è che in Italia manchino le leggi: ne abbiamo viceversa fin troppe sul groppone, col risultato che s’elidono a vicenda, e in ultimo ciascuno fa come gli pare. Non è che il Paese soffra l’assenza di un’energia riformatrice, come il corpo d’un malato lasciato senza medicine: le medicine sono a loro volta troppe, troppi i dottori che ce le somministrano, e ovviamente ogni dottore cambia la terapia confezionata da chi lo aveva preceduto. Sicché alla fine della giostra il paziente muore intossicato.
Valga per tutti il caso dell’università. Noi professori siamo costretti ormai da anni a un andirivieni normativo, dato che ogni governo si sente in obbligo di riformare la legge di riforma, quella varata dal vecchio esecutivo. Le riforme, poi, non sempre fanno tabula rasa del passato ordinamento; più spesso vi s’innestano, crescono per superfetazione, e infatti in questo momento gli atenei italiani offrono simultaneamente corsi di laurea diversi per durata, per numero d’esami, per disciplina complessiva. Non sapendo come diavolo chiamarli, li distinguono in relazione al vecchio, al nuovo e al «nuovissimo» ordinamento, con buona pace dell’Accademia della Crusca. Nel frattempo l’università ha sperimentato più divorzi di Liz Taylor: prima fusa con la scuola sotto un unico ministro, poi retta da un dicastero autonomo, ora di nuovo coniugata. Ma a conti fatti abbandonata al suo destino, perché nessuna riforma può generare frutti se non le si lascia il tempo d’attecchire. Dal pieno nasce dunque il vuoto, ed è esattamente in questo vuoto che hanno messo radici parentopoli, concorsopoli e gli altri scandali dell’università. Per forza, con 111 leggi in materia d’istruzione negli ultimi tre lustri, tutte elencate e consultabili nel sito web di Montecitorio. Ecco, le leggi. Nonostante le buone intenzioni del ministro Calderoli, ne abbiamo ancora 20 mila in circolo. Senza contare quelle regionali (all’incirca 25 mila), né i regolamenti del governo (70 mila).
Significa che il nostro diritto è un corpo opaco, inconoscibile per gli stessi addetti ai lavori. Significa al contempo che i furbi trovano sempre una scialuppa normativa che li conduce in salvo, mentre l’onesto annega. Ma questa ipertrofia della legislazione nutre a sua volta il corpaccione dello Stato, e a sua volta ne è nutrita. Anche qui basterà un esempio. Nell’officina del diritto ospitata da Palazzo Chigi c’erano 345 dipendenti sotto il Duce; oggi sono quasi 5 mila. E anche quando lo Stato si sottopone a una cura dimagrante, cedendo quote di potere, finisce per moltiplicare gli apparati burocratici (è il caso delle Regioni), oppure per moltiplicare i controllori, i quali giocoforza si pestano i piedi a vicenda (è il caso delle authorities, che ormai sono una dozzina).
Insomma, la nostra malattia morale s’accompagna a una bulimia di leggi, di istituzioni, d’apparati. Sarà la fame atavica dei politici italiani, che non sanno rinunciare a una provincia inutile o ai mille posti in Parlamento per non sparecchiare la tavola imbandita. Sarà l’idea di passare in gloria con la riforma del millennio. Però c’è almeno una virtù che a questo punto dovrebbero esibire: la virtù dell’astinenza.
La Stampa 23.02.10