Girando per l’Italia, per assemblee e manifestazioni, capita spesso che precari, lavoratori, pensionati ci invitino a parlare un linguaggio semplice e diretto per rappresentare in maniera più efficace e concreta il peso drammatico della crisi economica. Ci dicono «non parlate di welfare, parlate di sociale, di disoccupazione, di precarietà e reddito di cittadinanza, di servizi tagliati e sostegno scolastico, parlate di non autosufficienza e di solitudine degli anziani, di spazi negati ai bambini e furto di futuro per le nuove generazioni».
Più si esce dalla propaganda e dai talk show e più si allunga la lista dei drammi di milioni di persone che subiscono la crisi. Per spiegare meglio cosa vuol dire welfare, oltre a ribadire il valore della costruzione di un sistema pubblico di protezione sociale che ha accompagnato l’affermazione delle democrazie in Europa, aiuta ricordare cosa non dovrebbe essere il welfare: per esempio erogare miliardi alle banche che hanno predato il mercato finanziario e hanno rischiato di far crollare l’intero sistema economico mondiale per la loro voracità.
Il salvataggio delle banche, dopo anni di neoliberismo che aveva negato ogni forma di controllo pubblico sul mercato, diviene la più esplicita ammissione del fallimento di una politica al servizio dei grandi speculatori e delle multinazionali che hanno inteso la globalizzazione come ricerca forsennata di aree di produzione prive di vincoli sociali e ambientali e di nuove aree di consumo illimitato. La cecità di questo modello crollato sotto le macerie della stregoneria finanziaria si accompagna ai fallimenti dei grandi vertici internazionali su temi come il clima, la fame, il contrasto alla povertà. Il bilancio è tutto negativo in materia di tutela dei diritti sociali, di qualità della vita, lavoro e salute.
Siamo immersi in un infinito talk show che ha trasformato la politica in una disputa da baraccone giocata tutta dentro la scatola mediatica delle tv e non sa più raccontare, salvo rari casi, la drammaticità dei vissuti di chi non ha le risorse per uscire dal disagio. Le scelte del governo sul sociale sono ben descritte nel libro bianco che nega l’utilità di interventi a sostegno del reddito, distingue la povertà relativa da quella assoluta, contrappone i «privilegi» degli anziani alla precarietà dei giovani, nemmeno considera la riforma dei servizi sociali, la 328, e relega il terzo settore ad una funzione di erogatore di «dono» e volontariato. Per creare occupazione si propone la strada di ulteriori deroghe alla legislazione sul lavoro. Si sono persi migliaia di posti, ma il governo continua a negare la gravità della crisi e a fornire ricette sbagliate e pericolose.
Si afferma un’idea residuale di welfare che scarica sulle famiglie e sulle donne il lavoro di cura, confinando il disagio nel carcere e nelle nuove forme diffuse di controllo sociale. Si sta passando dallo Stato sociale a quello penale, tagliando fondi per i servizi e investendo nella macchina del controllo (videosorveglianza, Cie, carceri) con una proliferazione di restrizioni e divieti spesso insensati. A questa deriva ci opponiamo, proponendo una prospettiva di cambiamento che ridia spazio alla cultura, alle relazioni umane, alla coesione sociale e metta in discussione questo modello sociale con i suoi miti nefasti di crescita e competizione. Il 27 febbraio, in tante città d’Italia, i «diritti alzano la voce».
* responsabile welfare dell’Arci
Il Manifesto 23.02.10