Durerà il tempo della campagna elettorale, la nuova retorica di Berlusconi sulle norme anti-corruzione da applicare a politici e servitori dello Stato, ma l’opposizione farebbe male a sottovalutarne la forza. Sono norme in parte già affossate e poco credibili, visto che di corrotti che hanno fatto carriera ce ne sono molti nel Pdl. Non solo: sono regole contraddette dallo zelo con cui Berlusconi ha respinto, per tema di creare precedenti, le dimissioni di Bertolaso responsabile di scarso controllo sulla corruttela nella Protezione civile e di Cosentino indagato per contatti con la camorra. Falso ardimento è infine il divieto di candidarsi a chi è stato condannato in via definitiva: in Italia le condanne definitive possono giungere dopo quindici anni, sempre che non siano prima prescritte come nel caso di Berlusconi stesso. Resta che il premier sa fiutare lo spirito del tempo e subito appropriarsene, come già fece agli esordi di Mani Pulite quando contribuì (con le sue televisioni, spalleggiato da Lega e missini) ad affossare la prima Repubblica. Solo dopo denunciò i non più utili magistrati.
Questa capacità di fiutare il secolo, e di cambiar casacca appena gli conviene, disorienta ogni volta la sinistra e conferma su quest’ultima due cose: la debole preparazione al dopo-Berlusconi, e l’influenza inconfessata, ma profonda, che il leader Pdl esercita sugli animi dell’opposizione. Il calcolo brevissimo tende a prevalere sui tempi lunghi, il presente assolutizzato oscura il futuro, la frase subito popolare premia sul dire-vero. Lo si vede in modo speciale a proposito di temi fondamentali per il cittadino e reciprocamente dipendenti: sulla giustizia, e sulla crisi economica che da tre anni tormenta il mondo. La corruzione dilagante non aiuta affatto la crescita ma l’ostacola, isolando l’Italia.
Su giustizia e corruzione, l’opposizione ha spesso paura della propria ombra e stenta ad attaccare: quasi temesse di sfigurare, di cadere in tentazione riesumando la morale di Berlinguer, di non esser abbastanza collaborativa e al tempo stesso scaltra. È grande merito di Bersani aver abbandonato la linea che consisteva nel prendere le distanze da un Ulivo che pure fece vincere Prodi due volte. Lavorando sodo, il nuovo leader del Pd è riuscito in pochi mesi a conquistare la fiducia di soggetti disparati come Di Pietro, Bonino, in parte Casini. Ma una consistente strategia anti-corruzione ancora manca, e il rischio grottesco corso oggi dal partito scrive Marco Travaglio sul Fatto è di «regalare al premier più imputato della storia la battaglia, almeno mediatica, delle liste pulite». Per mesi Di Pietro fu ritenuto un sovversivo, dalla sinistra, e ora se ne elogia il moderatismo a causa del veto tolto al candidato per il governo della Campania. Un candidato, il sindaco di Salerno De Luca, forse ingiustamente accusato ma pur sempre rinviato a giudizio per truffa aggravata e falso.
Tanto più importante è chiedersi se l’opposizione sia preparata a gestire il dopo-Berlusconi meglio di come abbia gestito il quasi ventennio dominato dal capo di Mediaset. Se sia mentalmente pronta non per le prossime regionali ma per il giorno in cui, finita l’eccezione berlusconiana, si tratterà di prendere durevolmente il comando, di ricostruire, di riportare il potere pubblico da Palazzo Grazioli a Palazzo Chigi. Le dieci domande che l’istituto Open Democracy ha rivolto al centro-sinistra sono preziose.
Formulate il 12 febbraio, assieme all’Open University inglese in un convegno a Birmingham, esse implorano questo prepararsi non più rinviabile.
Enrico Letta ha raccolto la sfida, il 14 febbraio su La Stampa, ma alcune risposte non sono all’altezza del «terremoto» che secondo Open Democracy scoppierà quando Berlusconi uscirà di scena, e ci si accorgerà come egli abbia in realtà prolungato una lunga storia italiana di immobilità, di scandali, di collusione con la mafia, proprio mentre fingeva di mutarla alle radici. Alcune insufficienze dell’opposizione sono evidenti.
Innanzitutto, non esiste ancora traccia di un’autentica riflessione sugli errori degli ultimi quindici anni. Il questionario inglese domanda ad esempio perché la sinistra, quando ha governato, non legiferò sul conflitto di interessi (né abolì le leggi ad personam, aggiungiamo noi). Letta per rassicurare replica: «È un errore da non ripetere. Punto!». Proprio quell’interiezione tuttavia (Punto!) rassicura poco. Sapere che ha errato non spiega né aiuta, se non si dice oggi che cosa precisamente si farà domani. Se si schiva il racconto di uno sbaglio così sistematico: c’era del metodo, in quella follia. Allo stesso modo, appare elusiva la risposta alla sesta domanda del questionario (si introdurranno serie riforme del sistema politico: su numero dei parlamentari, su immunità, su costi della politica?). Letta fa promesse su bicameralismo imperfetto e riduzione dei parlamentari, ma su immunità e finanziamento della politica tace in maniera allarmante.
È qui che la giustizia si collega alla crisi economica. Negli anni che abbiamo alle spalle, il centro-sinistra ha mostrato di sottovalutare più cose di Berlusconi: le leggi speciali; la predilezione per un’informazione soprattutto televisiva asservita; l’incapacità di riformare l’economia, liberandola davvero dalla tutela dello Stato. L’uso dei diminutivi, così cari agli italiani che nascondono ferocie o minimizzano pericoli, accomuna D’Alema che auspica una «leggina ad personam» per limitare i danni, e Berlusconi che, tenero, chiama birbantelli i corrotti della Protezione civile. Evidentemente c’è del metodo anche in simili sottovalutazioni. Il metodo di chi, senza magari volerlo, ha interiorizzato parecchie patologie berlusconiane, compresa la vocazione a spartirsi la Rai e a non dire la verità sull’economia.
Bersani non ha torto, nel sostenere che la crisi è stata a lungo e demagogicamente negata dal governo. Ma a giudicare dalla posizione assunta sulle difficoltà dell’auto difficoltà globali, non solo nazionali si direbbe che anch’egli la neghi, quando rifiuta, senza azzardare spiegazioni, la chiusura di una fabbrica, a Termini Imerese, che lavora in perdita da anni. Per l’opposizione questa era l’occasione, grande, di dire il vero agli italiani; di guardare lontano nel tempo; di far parlare i fatti: nell’auto si produce più di quel che si vende, e la tendenza diverrà forse duratura nel mondo; la sua età d’oro è legata all’energia poco cara, a mercati più ristretti, al lavoro che implicava viaggi e ancora non includeva il telelavoro. Ci fu un tempo in cui gli americani costruirono i suburbia, gli agglomerati urbani da dove ci si muoveva con automobili divoratrici di benzina, lontani dalle città. L’età d’oro è in crisi. Alcuni (l’urbanista James Kunstler, assieme a molti altri) prevedono addirittura il lento morire dei suburbia.
Naturalmente esistono rimedi, che non consistono tuttavia solo nel produrre macchine meno costose energeticamente. Le industrie dell’auto, scrive il giornalista Max Fraser, potrebbero partecipare all’ampliamento, essenziale, dei trasporti comuni (treni, autobus): un po’ come avvenne quando l’auto si rinvigorì, nella seconda guerra mondiale, costruendo aerei e carri armati per Roosevelt (Fraser, The Nation, 1-6-09).
Sulla giustizia come in economia, urge non solo parlare di futuro ma pensarlo, e farlo. Dice Carlo Federico Grosso, in un’intervista a Beatrice Borromei sul Fatto: «Mani Pulite non è servita a nulla, il codice penale non basta più per combattere la corruzione». Il giudice non basta perché arriva dopo i reati. Ma neppure la politica basta, se continua ad arrivare tardi su tutti i fronti, economia compresa. Chi dice che la colpa è della società e non della politica ha una strana visione marxista del mondo: Stato e politica non sono che sovrastrutture, e solo la società, uscendo dalla congenita sua corruzione, può acquisire la liberatrice coscienza della propria alienazione.
da www.lastampa.it