Come molti osservatori avevano previsto, il trend della fiducia nel governo Berlusconi è tornato a scendere, con una ulteriore diminuzione in questi ultimi giorni. La popolarità dell’esecutivo aveva già subito un calo piuttosto consistente nell’autunno dello scorso anno. A dicembre, anche grazie all’«effetto statuetta», il consenso era notevolmente risalito, ma poi ha intrapreso nuovamente una china discendente. I giudizi positivi sul governo hanno visto un’erosione più diffusa in svariati segmenti: tra i giovani fino a 35 anni e, al tempo stesso, tra i più anziani oltre i 65 anni, tra coloro che posseggono titoli di studio più bassi, tra i residenti nel sud e nelle isole, tra gli imprenditori e i liberi professionisti.
I motivi di questo andamento sono molteplici. Da un verso, si rileva una sorta di delusione crescente, anche all’interno dell’elettorato di centrodestra: l’esecutivo viene accusato —a torto o a ragione—di concentrarsi eccessivamente sulle questioni giudiziarie e di trascurare altre tematiche di rilievo, specialmente, le riforme di cui il Paese ha bisogno. Dall’altro, l’opinione espressa dagli elettori sul governo risente molto, com’è ovvio, dell’andamento dell’immagine del premier, della crescita o del calo della popolarità di quest’ultimo e dei suoi più stretti collaboratori. È ragionevole pensare, dunque, che il decremento di fiducia nel governo riscontrato in questi giorni sia dipendente anche dal «caso Bertolaso » e, in generale, dall’impressione che ci si trovi di fronte ad una sorta di «nuova tangentopoli» o, comunque, ad un allargarsi preoccupante dei casi di malversazione—se non, talvolta, di corruzione—nel settore pubblico. L’episodio milanese, che ha visto il presidente della commissione Urbanistica colto in flagrante mentre riceveva una mazzetta e altri simili accadimenti occorsi, sempre negli ultimi giorni, in altre città, hanno rinforzato l’immagine di un decadimento crescente. Diversi commentatori hanno sottolineato come questi avvenimenti non costituiscano solo l’indizio del degrado di moralità rilevabile nelle istituzioni dello Stato, ma siano l’espressione della cultura generale del nostro Paese, spesso incline alla furbizia, all’«arrangiarsi», sino alla trasgressione delle regole in nome dell’interesse personale o familiare. Molti comportamenti illegali, perpetrati anche da privati cittadini, vengono giustificati col fatto che «lo fanno tutti» o, più spesso, che «il mio è un caso particolare e dunque deve essere accettato».
Interrogata sulla possibile ipotesi di «comprensione» dei casi di corruzione da parte degli esponenti pubblici, la maggior parte dei cittadini esprime un giudizio severo, senza possibilità di appello. Ma una quota piuttosto numerosa — corrispondente a più di un italiano su cinque—afferma che «i politici corrotti fanno male», ma che «in fondo fanno come tutti». È la parte, minoritaria ma al tempo stesso assai consistente, del Paese che, in qualche modo, tende a giustificare buona parte dei comportamenti scorretti (in primo luogo i propri). Questo atteggiamento è più diffuso tra le persone con titolo di studio medio e, in misura ancora maggiore, tra le casalinghe. Ancora, appare «comprendere» lievemente di più i casi di corruzione politica chi dichiara di votare per il centrodestra. Beninteso, anche in questo segmento di elettorato si tratta di una minoranza, sempre piuttosto ampia, di poco superiore al 30%. Tuttavia questo «familismo amorale» (secondo la definizione che, già negli anni ’50, il sociologo americano Banfield diede della cultura del nostro Paese), pur essendo assai diffuso, non porta a scagionare i comportamenti dei politici. La maggioranza assoluta degli elettori, l’80% circa, attribuisce agli esponenti politici (in quanto detentori di risorse pubbliche) responsabilità maggiori dei singoli cittadini e, di conseguenza, è portata a giudicarli — e condannarli — più severamente. Con inevitabili implicazioni sul livello di popolarità dei governanti.
da www.corriere.it