La ripetitività degli scandali che si abbattono sull’Italia può alimentare due sbagliate reazioni dell’opinione pubblica: l’assuefazione, cinica e rassegnata, a un virus corruttivo che sembra dilagare nella società italiana e l’abitudine a confondere le accuse con i sospetti, le maldicenze con le sentenze, i reati con i peccati, le fantasie complottistiche con le prove dibattimentali.
Un gran polverone dove il destino di queste indagini giudiziarie è segnato. Chi è schierato politicamente con gli imputati è deciso ad assolverli, pur contro ogni evidenza. Chi sta dalla parte opposta ha già emesso una condanna, preventiva e inappellabile. Una divisione in due partiti, però, molto provvisoria: sarà presto l’oblio a riunificarla, nell’attesa della prossima inchiesta. Ecco perché, in queste circostanze, è assolutamente necessaria la ricerca delle differenze, la pazienza nel separare le situazioni, la chiarezza nell’individuare le responsabilità.
Ogni grande scandalo nazionale, pur nella similitudine della caccia al ladro di turno, si contrassegna per una locuzione, sintetica ma espressiva, che lo distingue. All’epoca di «Mani pulite» fu la cosiddetta «dazione ambientale», una tassa impropria riferita al rapporto imprenditori-partiti. Quella tangente, controllata ferreamente dalle percentuali del Cencelli spartitorio, che alimentava il finanziamento illegale della politica. Oggi, l’etichetta che ha colpito l’immaginazione degli italiani è la parola «gelatina», con la quale i magistrati dell’accusa hanno definito la collusione vischiosa di amicizie, favori, complicità, tra funzionari statali e aspiranti agli appalti dell’amministrazione pubblica.
E’ questo, dunque, il punto sul quale bisogna concentrare l’attenzione dei cittadini. Anche perché, almeno finora, non sono emerse nell’inchiesta sulla Protezione civile prove di corruzioni milionarie, ma le accuse imputano favori ai familiari, compiacenti assunzioni più o meno precarie, ospitalità gratuite, elargizioni di auto e, magari, di ragazze ben disposte. Le intercettazioni rivelate sui giornali, poi, aldilà dei sospetti di reati, tutti da dimostrare, illuminano, però, un costume sul quale non bisogna aspettare i giudizi dei tribunali perché sia evidente una constatazione: è scomparsa nelle classi dirigenti dell’amministrazione pubblica qualsiasi consapevolezza degli obblighi di comportamento che gravano sui cosiddetti «servitori dello Stato».
E’ bella questa espressione con la quale, con orgoglio ottocentesco, si è autodefinito Guido Bertolaso. Peccato che il capo della Protezione civile sembra sottovaluti quanto contrasti con l’atteggiamento di confidenza e di amicizia da lui dimostrato nei confronti di imprenditori che il suo dipartimento aveva la facoltà di premiare o punire. Con l’aggravante dell’assoluta discrezionalità, giustificate o no che fossero le emergenze dichiarate per quei lavori. Peccato che la stessa, e forse maggiore, insensibilità l’abbiano manifestata i suoi collaboratori, pronti a un attivismo ambiguo e collusivo, invece di esercitare il distacco, l’imparzialità, la discrezione al limite dell’estraneità, che competono all’arbitro, detentore del potere di far arricchire chi da una sua scelta dipende.
La confusione, nel costume italiano, tra interessi personali e interessi dello Stato, della sua credibilità e della sua efficienza, non solo determina le conseguenze denunciate ieri dal procuratore della Corte dei Conti per il boom di denunce e per i danni erariali connessi ai reati amministrativi e penali. Ma alimenta una più generale «corruzione mentale» fra tutti i poteri dello Stato.
E’ quella «corruzione mentale» di cui sembra afflitto il pm di Bari, Lorenzo Nicastro, che grida alla «discriminazione» se qualcuno gli fa osservare quanto sia sbagliata la sua candidatura come avversario politico proprio di un suo indagato. La stessa sindrome che colpisce un giudice costituzionale, già presidente dell’Antitrust, Giuseppe Tesauro, quando è costretto ad ammettere di essere socio in affari con un imprenditore, più o meno chiacchierato che sia. Una insensibilità dimostrata anche da due suoi colleghi della Consulta, Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano, quando, alla vigilia della decisione sul lodo Alfano, parteciparono a una cena con Berlusconi e con lo stesso ministro della Giustizia.
E’ giusto che i pm di Firenze si offendano se il presidente del Consiglio li invita a «vergognarsi» per aver indagato il vertice della Protezione civile, ma otterrebbero maggiore solidarietà se tanti loro colleghi evitassero di dimenticare che i giudici non solo devono essere imparziali, ma anche «apparire» tali. La riservatezza, il senso d’opportunità, l’estraneità ad amicizie potenzialmente in conflitto rispetto agli obblighi della funzione, per un dipendente statale, di qualsiasi livello e a qualsiasi ordine appartenga, non sono manifestazioni di ipocrisia o di moralismo bigotto e passatista. Sono sacrifici, magari anche limiti a quella manifestazione del pensiero che è costituzionalmente garantita a tutti i cittadini, ma che si esercita nelle forme e nei modi consentiti a chi riveste un ruolo così delicato. Possono essere anche «discriminazioni», come le chiama il pm Nicastro, a cui si dovrebbero assoggettare volentieri coloro che, senza alcuna costrizione, scelgono una carriera nell’amministrazione pubblica.
Il prossimo anno si festeggeranno i 150 anni dello Stato italiano. Invece dei soliti riti celebrativi e delle solite polemiche retrospettive sulle virtù degli Stati borbonici e le crudeltà repressive dei piemontesi, ecco un bel tema di riflessione e di discussione pubblica. Anche perché la corruzione va colpita in sede giudiziaria, ma va combattuta prima di tutto nella testa dei cittadini. Specie se sono «servitori dello Stato».
La Stampa 18.02.10