Esportazioni, indietro di quarant’anni. I dati sul commercio estero diffusi ieri dall’Istat sono pesanti, racchiusa in due cifre c’è tutta la sofferenza del made in Italy, quella locomotiva che non tira più, tenuta ferma dalla crisi internazionale e dall’assenza di politica industriale. Il 2009 ha chiuso con un calo delle esportazioni pari al 20,7% sul 2008, bisogna tornare al 1970 per trovare un livello simile . Ancora più indietro non si può, prima di allora infatti le serie storiche non esistevano. Il dato non è isolato ma viaggia con quello, ugualmente negativo, delle importazioni che l’anno passato ha chiuso a -22%, il più basso mai registrato. Da un lato questo riporta in equilibrio la bilancia commerciale, anzi c’è una riduzione del deficit pari al 36% (da 11,5 miliardi a 4,1); dall’altro parla di un paese la cui economia non gode di buona salute. Dal tessile, bandiera del made in Italy (a -17,7%) ai mobili (-21,4%) all’auto nessun settore (-34,4%) è stato al riparo dal crollo dell’export: fanno eccezione gli articoli farmaceutici e quelli di erboristeria a +2,4%. Del resto bastava dare un’occhiata anche distratta all’elenco delle aziende in crisi per cogliere le forti difficoltà del nostro sistema produttivo, a cominciare appunto dai settori manifatturieri. Il sindacato e l’opposizione accusano il governo di non averlo fatto per tempo e di non averlo fatto abbastanza. Ma il ritornello non cambia.
CI PENSA IL MERCATO Ancora ieri, di fronte alla sintesi drammatica dell’Istat, il vice ministro con delega al Commercio estero, Adolfo Urso, faceva professione di ottimismo. Posto a premessa che «a causa della crisi internazionale il 2009 è stato un anno nero per le esportazioni», Urso si consola con l’ultimo trimestre 2009 «che ha riportato il segno positivo verso i mercati extraeuropei, primo segnale di ripresa in 14 mesi». Quindi «il fondo è stato toccato», pronostica Urso, e conclude «chiuderemo il 2010 a +4%». Manca nelle parole del viceministro l’analisi delle cause e, possibilmente l’indicazione dei rimedi. La piccola dimensione, la scarsa innovazione, la poca liquidità: questi i punti deboli dell’impresa italiana che esporta, secondo Simest società italiana per le imprese all’estero. «Continuare, come sta facendo purtroppo il governo, in un inutile esercizio retorico sulla presunta migliore condizione di salute dell’Italia è il modo peggiore e per nulla pragmatico per aiutare il sistema produttivo a superare i passaggi difficili dell’attuale congiuntura», commenta Matteo Colaninno, responsabile Sviluppo industriale del Pd. Al governo «chiediamo di condividere e assumere, in Parlamento, scelte per sostenere lo sforzo innovativo del sistema industriale e aggredire più efficacemente la difficile crisi». «I dati sull’export dimostrano l’urgenza di investimenti in ricerca e innovazione tecnologica a favore delle imprese italiane», e «una riduzione del fisco per i redditi da lavoro dipendente e da pensione», dichiara per la Cisl il segretario confederale, Luigi Sbarra. Politiche di «investimenti, aiuti e risparmi fiscali», è quanto chiede anche la Uil con Antonio Foccillo. «Se non si inverte la tendenza sugli investimenti – chiosa Susanna Camusso per la Cgil – difficilmente si potrà affermare che si avvia una ripresa». Per la Cgil è «essenziale che il governo si doti di un’idea del come fronteggiare la crisi. Senza un obiettivo ed un sostegno ai settori trainanti dell’esportazione (macchine utensili), infatti, la frenata 2009 si tradurrà in una perdita di competitività perché altri riempiranno il vuoto». «Una conferma di assenza di politiche per il commercio estero – conclude la segretaria della Cgil – è nella contrazione del made in Italy: uso del marchio e sostegno agli investimenti dovrebbero essere i punti di partenza di una vera politica industriale.
L’Unità 16.02.10