Solo Cartesio forse riesce a spiegare l´epidemia ladrona che imperversa nel Paese. L´altro giorno un quotidiano ha fatto l´elenco delle malversazioni compiute da politici e affaristi nell´ultimo mese.
Occupava mezza pagina. Siamo tornati a «Mani pulite», al complotto dei giudici comunisti per affossare Bettino Craxi, l´uomo della Milano da bere? Diciotto anni fa andai al palazzo di giustizia di Milano per sapere cosa ne pensasse il procuratore Francesco Saverio Borrelli. L´ufficio del procuratore era immenso, perché nella burocrazia italiana il grado elevato si misura a metri quadrati di tavolo e a metri cubi di stanza. Trovai un signore piccolo di statura ma con la schiena dritta, uno che senza alzare la voce mi spiegava il perché di Mani pulite, allora e non prima. «Vede, i segni della corruzione dilagante c´erano, alcune aziende erano fallite sotto il peso delle tangenti, delle “dazioni”, come le chiamavano. E c´era stata la “Duomo connection” che rivelava la complicità fra la politica e l´affarismo. Eppure abbiamo aspettato a intervenire perché le voci, gli indizi, le indagini, le intercettazioni telefoniche devono comporsi, assumere una chiarezza inequivocabile. Deve cioè accendersi la luce dell´evidenza e dell´intollerabile perché l´intervento della giustizia sia efficace e non più rinviabile, perché le indagini mordano i corrotti e non siano uno spreco di buoni propositi. Io mi sono convinto che Mani pulite sia stata possibile perché ci fu un lento ma progressivo recupero di valori, la consapevolezza di vivere in una società ingiusta, la stanchezza di dover subire dovunque e comunque la disonestà imperante». A diciotto anni da quell´incontro molti di noi si chiedono se la luce stia per accendersi, se stiamo finalmente per uscire dal tunnel, da questa illegalità «gelatinosa», come la chiamano. Il procuratore Borrelli ha risposto di recente a queste domande con un´esortazione kantiana: «Resistere, resistere, resistere». Un´esortazione che può sembrare puritana ma che è semplicemente un invito al ritorno della ragione, a uscire dalla ripetizione degli errori, dall´anarchia delle umane avidità. Leggendo l´elenco dei più recenti latrocini apparso su un quotidiano milanese, ciò che colpisce di più è che spesso i corrotti non sanno bene perché lo sono, perché hanno accettato di esserlo. È un´alienazione che già impressionò i magistrati che si occuparono di «Mani pulite»: la corruzione che diventa un obbligo inevitabile, come ha confessato il consigliere comunale di Milano Pennisi, che si fa arrestare mentre intasca cinquemila euro: «Mi sono rovinato da solo».
E anche qui un ricordo di diciotto anni fa, il giudice di «Mani pulite» Piercamillo Davigo che racconta: «L´altro giorno ho interrogato un giovane impiegato del municipio di Vigevano; apro l´incartamento e leggo che ha intascato una tangente di poche migliaia di lire. È uno della mia età, uno di ventisette anni. “Scusi- gli dico- ma vorrebbe spiegarmi perché uno come lei si è giocato la reputazione e la vita per poche lire?”. “Ero obbligato – risponde- quei pochi soldi me li ha dati il mio capo ufficio, se gli dicevo di no alla prima occasione mi licenziava”».
Ho aperto questo articolo con la citazione di un filosofo. Che ha da spartire la filosofia con la corruzione? Forse non la impedisce ma la spiega. C´è una contesa filosofica dietro «Mani pulite» come dietro lo scandalo della Protezione civile. Fra quanti pensano che la distruzione-creazione del libero mercato, o se preferite la «lotta per la vita» sia il prezzo della sopravvivenza, e quanti invece che il ritorno alla ragione sia l´unica sopravvivenza possibile.
«Rubo dunque sono». La delinquenza dilagante e ossessiva non è solo avidità, è anche voglia di «farla franca», di essere più furbi, più disinvolti, più pronti degli altri. Guido Bertolaso nella sua difesa ha colto bene questo aspetto: «Mi è stato chiesto di intervenire subito, in fretta, per rispondere subito alla richiesta di protezione. Ma la fretta non va d´accordo con i controlli, con le giuste prudenze». E si ritorna ai rischi e agli errori del populismo, della politica del fare, della ricerca del consenso a ogni costo. L´avidità è grande, ma la voglia di «farla franca» è incontenibile. Ogni giorno la televisione e i giornali danno notizia dell´arresto di un boss mafioso: cambia il nome ma la storia è sempre la stessa, sempre la voglia di «farla franca». Tutti i ladri convinti di aver trovato il modo per essere più furbi delle guardie, tutti con il covo sotterraneo convinti di essere più furbi dei carabinieri. Nei paesi dell´Aspromonte come nell´hinterland milanese fortini, vie di fuga sotterranee, pareti doppie, allarmi elettronici e televisivi, camere blindate e magari anche l´altare con il santo protettore. Una gaglioffaggine presuntuosa. Non è vero che il delitto paghi, è vero che il delitto piace, che al «rubo dunque sono» non si resiste.
La Repubblica 16.02.10
Pubblicato il 16 Febbraio 2010