Dalla crisi non siamo affatto usciti, anzi ci vorranno ancora molti anni prima di superarla del tutto. Non sono ottimista perché vedo fatica nelle imprese: l’utilizzazione dei macchinari è piombata fra il 60 e il 70% della capacità. È un problema serio: ci vorranno 20 punti di ripresa per ritornare allo sfruttamento pieno degli impianti. Nel frattempo, si indebolisce la struttura finanziaria delle imprese. Rischiamo che nei prossimi mesi diventi estremamente serio il problema degli insoluti.
La crisi ha accentuato la tendenza che vede la produzione industriale europea concentrarsi attorno all’area geografica che va da Amburgo a Firenze. Ciò crea forti diversità di interesse fra Paesi europei e all’interno degli stessi. Avere economie che si orientano in modo diverso rende più complicata politica Ue. Ora l’Italia prende solo le briciole: è il risultato della nostra limitata presenza a Bruxelles. La mancanza di una politica industriale italiana e la ridotta dimensione delle imprese consentono alle grandi aziende europee di fare lobby e orientare le politiche e i finanziamenti Ue quasi naturalmente verso i loro interessi.
Dobbiamo riprendere la politica industriale: non è una parola sporca. La mancanza grandi imprese è un problema serio. Eppure, nonostante questo, nella crisi abbiamo tenuto grazie alla meccanica strumentale, oltre al made in Italy. L’industria è l’unico settore che regge alla concorrenza internazionale. Grazie al fatto che operiamo in settori a tecnologia multipla e con manodopera altamente specializzata. Ciò rende l’imitazione molto più difficile: non è vero che l’Italia si regge solo sul made in Italy. E il costo della nostra manodopera specializzata è molto più basso che negli altri Paesi europei. Il problema non è il costo della manodopera ma la mancanza di politiche settoriali di sostegno alla domanda ma soprattutto alla produzione e alla ricerca. Dobbiamo costruire una politica industriale incentrata sulle nostre caratteristiche, sulle filiere nei settori molto specializzati dove siamo forti. Tuttavia, manca una strumentazione giuridica capace di rafforzare i nostri punti forza e la nostra presenza nei mercati internazionali.
Abbiamo una debolezza molto significativa nei settori fortemente innovativi. Siamo l’ottavo Paese industriale mondo, ma partecipiamo all’innovazione solo per un decimo di quanto fa ad esempio Israele. È un problema enorme: pensiamo all’innovazione dei prodotto di massa: non c’è un telefonino inventato o fabbricato in Italia. Ogni nuovo iPod è un deficit commerciale futuro.
Oggi dobbiamo puntare su scienze della vita, energia, ambiente. In questi campi possiamo fare moltissimo. Ci vuole politica industriale che scomponga i sottosettori, crei rapporti diversi con le Università. E poi ci vuole una grande logistica: oggi il sistema industriale funziona solo con una subfornitura aperta a tutto il mondo.
C’è stato un crollo dell’imprenditorialità dei servizi. Non c’è una sola catena alberghiera nazionale, una catena di pizzerie o di caffè. Sono tutte straniere.
Non ho visto politiche governative di coordinamento per l’innovazione. Non posso nemmeno criticare, perché non si può criticare il nulla. Il nostro programma di Industria 2015 aveva un orizzonte giusto, decennale, perché questi processi hanno bisogno di un obiettivo a lungo termine. Dobbiamo investire nell’aggregazione fra grandi e piccole imprese, nei centri di ricerca, rendere conveniente la trasmigrazione fra università, centri di ricerca, sviluppare tecnologie innovative.
Dobbiamo incentivare la fusione e la collaborazione fra imprese. Ma anche porre grande attenzione quando le imprese vengono acquistate dai fondi finanziari. La loro sorte è quasi sempre segnata: gli obiettivi dei fondi sono a breve, quelli delle imprese a lungo.
Dobbiamo creare imprese, non necessariamente grandi, ma in settori molto specializzati. L’unico modo di uscire stabilmente è inserirsi nell’economia mondiale con nicchie di produzione molto specializzate. Ci vuole uno sforzo molto maggiore. I tecnopoli hanno ancora dimensioni troppo limitate e i rapporti con le università sono troppo fragili. Siamo a livello elementare: c’è invece bisogno di grandi sperimentazioni. E poi abbiamo bisogno di una grande platea di nuovi consumatori: in tutte le grande crisi si è sempre dimostrato che la produzione industriale post crisi non è mai tornata livelli precedenti.
Quanto alla situazione del Meridione,il giudizio è tranchant: “Non esistono le condizioni per lo sviluppo di un’imprenditorialità diffusa a causa delle condizioni di agibilità a causa della presenza massiccia di attività criminali”.
L’Unità 13.02.10