Era questo il Paese che sognavano Ernesto, Luigi, Enrico e Giovanni Cairoli e tutti gli altri ragazzi morti perché noi italiani stessimo insieme? E’ questa l’«Italia redenta, pura di ogni macchia di servitù e di ogni sozzura d’egoismo e corruzione» che immaginava Mazzini nella lettera alla madre Adelaide («Voi che li avete veduti sparire a uno a uno…») dove si diceva certo che la memoria di quei fratelli sarebbe rimasta in eterno «simbolo a tutti del dolore che redime e santifica»? Mah… Centocinquanta anni dopo, il nostro è uno strano Paese che non conosciamo bene. Un Paese che, lasciandosi alle spalle secoli di povertà, violenza e degrado che ancora a metà dell’Ottocento spinsero Charles Dickens a scrivere pagine cupe in Visioni d’Italia, ha vissuto tra mille contraddizioni decenni di recupero e sviluppo fino al formidabile boom che ci portò ai primissimi posti nel mondo. Un Paese dai paesaggi bellissimi e insieme sfregiato da orrori urbanistici. Traboccante di intelligenze, ma il più delle volte sprecate. Ricco come nessun altro di opere e città d’arte ma incapace di sfruttare questo immenso patrimonio. Un Paese nel quale la burocrazia soffoca le imprese, dove le tasse sono fra le più alte del pianeta, dove la classe dirigente, anziana e aggrappata al potere, ostacola il ricambio. E dove il razzismo strisciante avvilisce la nostra storia di emigranti. Un Paese pieno di energia ma anche impaurito, capace di straordinari slanci di solidarietà come dopo il terremoto a l’Aquila ma anche esposto alle tentazioni di barricarsi, dal Nord al Sud, in egoismi sovente gretti e suicidi che rischiano di portare alla disgregazione.
Un Paese spaesato. Che fa sempre più fatica a riconoscere le ragioni dello stare insieme. Che giorno dopo giorno, liberandosi di certe forzature retoriche sabaude e poi fasciste che avevano impomatato una certa idea di patria («Ed essa faremo co’petti, co’carmi / superba nell’arti, temuta nell’armi / regina nell’opre del divo pensier ») sembra aver buttato via l’unica epopea che aveva. Quella del Risorgimento. Il grande romanzo culturale, militare e sociale (pieno di colpi di scena e avventure umane e tradimenti e slanci ideali e lutti e pathos ed errori e leggendari esempi di dedizione) che altri avrebbero sbandierato con l’orgoglio di chi mostra la storia di terre e genti divise da secoli che in pochi anni sanno diventare una nazione. Dove va un Paese che non ama la propria storia?
Un Paese timoroso del suo futuro e infastidito quasi dal suo passato, come dimostrano le incertezze e le insofferenze nella programmazione del Centocinquantenario? E’ quello che cercheremo di scoprire con un lungo viaggio attraverso i luoghi della nostra memoria collettiva. Scopriremo che i campi di battaglia sono diventati aree industriali forse oggi un po’ ammaccate ma floride, che dove attraccarono i Mille ci sono ombrelloni e villette abusive, che a due passi da dove Garibaldi disse «Obbedisco» comanda la camorra o si batte coraggioso un prete di frontiera. E magari scopriremo anche che non solo l’Italia è un Paese vivo pronto a ricominciare ma che nella storia risorgimentale ci sono ancora molte cose da raccontare, che forse vengono ignorate dai libri ma sono nel cuore e nella pancia delle persone e rappresentano la ricchezza delle comunità locali. Una ricchezza da preservare e tramandare.
Il Corriere della Sera 12.02.10