Lì per lì, saluti la notizia con un respiro di sollievo: per un mese intero, prima delle elezioni regionali, niente risse fra i politici in tv. Niente liturgie in politichese.
Niente talk show in prima serata dove il ministro di turno s’esibisce come una rockstar. Diciamolo, negli ultimi tempi ne avevamo fatto indigestione. Ma nel caso di specie la quarantena non dipende dalla legge dell’Auditel, bensì da quella sulla par condicio. O meglio dall’ultima paradossale applicazione che ne ha dettato la commissione di Vigilanza sulla Rai.
Per la precisione, i paradossi sono tre. Primo: l’espulsione della politica dai programmi d’informazione politica. Bruno Vespa, Michele Santoro, Giovanni Floris, Lucia Annunziata potranno continuare le rispettive trasmissioni, dedicandole però ai cuori infranti o alla cucina esotica. Forse sarebbe meglio cambiare conduttore, ma questo la commissione parlamentare non lo ha mai deliberato, in Italia non c’è mica la censura.
Secondo: se c’è un momento in cui i nostri connazionali spendono qualche grammo d’interesse verso gli affari del Palazzo, quel momento coincide con una vigilia elettorale. E per dissetarli il Parlamento gli spegne la tv? O in alternativa rimpiazza il dibattito fra i candidati con le vecchie tribune politiche, con una visita guidata al museo delle cere? Se l’obiettivo è d’impinguare il già grasso astensionismo elettorale, coraggio, siamo sulla buona strada.
Terzo: che ne sarà di Matrix, che ne sarà degli altri approfondimenti politici che vanno in onda sulle reti private? Cambiando rete cambia pure lo sceriffo, che nella fattispecie indossa la stella dell’Autorità per le telecomunicazioni. Siccome è improbabile che quest’ultima ripeta virgola per virgola l’editto della Vigilanza Rai (è o non è un’autorità «indipendente»?), alla fine della giostra avremo due regimi, dove nel primo è vietato ciò che nel secondo viene consentito. Ma per viaggiare da un regime all’altro non serve il passaporto, basta il telecomando. Un po’ di zapping e l’editto della Vigilanza Rai avrà l’unico effetto di far precipitare gli ascolti della Rai.
Questi tre ossimori sono figli a loro volta d’un quarto paradosso, in Italia il più antico e persistente. È il paradosso delle regole: senza, la libertà non può attecchire, perché gira subito in licenza, e la licenza in prepotenza, autoritarismo, arbitrio; ma troppe regole s’elidono a vicenda, e in ultimo uccidono la stessa libertà che dovrebbero salvare. Ecco, le regole. Nel preambolo del regolamento battezzato dalla commissione di Vigilanza sulla Rai vengono enumerate 10 leggi nazionali, 6 leggi regionali, una convenzione e 3 atti d’indirizzo. Quello stesso testo sviluppa 13 articoli, 451 righe, 5.350 parole. Manca una norma sui colpi di tosse e gli starnuti in tv, ma prima o poi ci arriveremo.
Nulla d’inedito, la stessa armatura normativa inchioda tutti gli ambiti della nostra vita pubblica e privata. Ma nel caso della libertà d’informazione il suo effetto è ancora più nefasto. Perché un’informazione addomesticata è in realtà un’informazione negata. Perché il pluralismo va piuttosto garantito con una severa disciplina antitrust e con una Rai non lottizzata dai partiti. Infine, certo: perché la par condicio si è rivelata una iattura. Varata nel 1995 dal governo Dini, non ha mai assicurato l’equal time fra i candidati come succede negli Usa, trasformandosi viceversa in un fattore d’opacità nell’avventura elettorale. Sarebbe il caso di sostituirla con regole più duttili, più sobrie, più rispettose della libertà d’informazione. Anche se proprio adesso la par condicio ha generato il suo frutto maturo: il par silentium.
La Stampa 11.02.10