Berlusconi ricomincia là dove s’era interrotto. Riprende il suo lavoro da Bonn, dallo spirito populista, bonapartista e anticostituzionale che ha accaldato il suo intervento al congresso del Partito Popolare Europeo. In quell’occasione, il premier denuncia due organi supremi di garanzia: la presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale. Li accusa di essere strumenti politici di parte, al servizio di un “partito dei giudici della sinistra” che avrebbe “scatenato la caccia” contro il premier. Schernisce la Costituzione. Annuncia di volerla, di “doverla” cambiare. In nome del popolo sovrano. Quel giorno, 10 dicembre 2009, diviene chiaro “il sentimento da abusivo con cui il primo ministro italiano abita le istituzioni, mentre le guida”. Egli si sente un estraneo nell’architettura istituzionale che dovrebbe rappresentare. Un estraneo e un prigioniero, perché quell’architettura egli l’avverte come un’armatura che lo soffoca e deprime, mentre pretende di dominarla e maneggiarla come fosse morbida pelle. Quel giorno a Bonn, come osservò Repubblica, è nitida la sfida che Berlusconi lancia: non vuole essere, tra gli altri, garante di un ordinamento. Vuole creare, sotto il segno dello stato d’eccezione, un nuovo ordine che riconosca il suo potere distinto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri poteri repubblicani che si bilanciano tra di loro: “il leader del popolo che lo sceglie nel voto”, quindi liberato di ogni contrappeso dall’unzione suprema di una sovranità inviolabile.
Venne poi il 13 dicembre, piazza Duomo, quel matto di Massimo Tartaglia, l’aggressione e la violenza, il volto insanguinato del premier e, per settimane, l’estremo grado di intensità di un discorso pubblico declinato intorno alla distinzione di amico/nemico apparve una strada senza uscita a molta parte del Paese. Sfratta ogni illusione di una nuova temperie la sortita che dà avvio, dopo quella crisi, al nuovo anno politico. Come d’abitudine, si consuma in un ambiente “compatibile”, protetto dal suo “notaio” televisivo, nelle forme del flusso verbale ininterrotto che eclissa fatti (come la vulnerabilità cui lo espone una vita capricciosa); nasconde le proprie responsabilità (come per la character assassination di Dino Boffo, schiacciato con un documento falso dal suo giornale). Il premier ritorna su un suo chiodo fisso. Rivendica il diritto di decidere quali sono, dove sono i “nemici”, quei gruppi professionali che minacciandolo aggrediscono – sostiene – l’esistenza dello Stato stesso che egli, per volontà popolare, incarna. Naturalmente, a Roma come a Bonn, comincia dai magistrati. Dice: “Non si può governare attaccati da pubblici dipendenti quali sono i giudici. Rispondere all’uso politico della giustizia con un uso democratico del voto popolare è legittimo e assolutamente doveroso”. Lasciamo perdere la solita polemica sull'”uso politico della giustizia”. Pare più essenziale osservare che ancora una volta Berlusconi interpreta, con coerenza – ieri come oggi e come accadrà domani – il quadro politico-istituzionale intorno al divisivo concetto di amico/nemico. I magistrati sono “nemici” perché (come ogni altro organo di garanzia e di controllo) impediscono al sovrano di governare, perché sorvegliano le sue decisioni e quella vigilanza è un ostacolo che crea uno status necessitatis, l’urgenza di provvedimenti legislativi che ne riducano i poteri (con una riforma della giustizia) proteggendo al tempo stesso chi governa dalla loro azione (con le leggi immunitarie). A rendere ancora più chiaro qual è lo spirito “costituente” che agita il premier è il fatto del giorno: l’indagine penale che coinvolge Guido Bertolaso. La coincidenza aiuta a capire.
Il “padrone” della Protezione civile rappresenta alla luce del sole, nel modo più vivido, il nuovo “ordine” che Berlusconi esige. Bertolaso interpreta il paradigma della “militarizzazione della decisione politica” che il premier immagina debba essere lo strumento d’uso quotidiano del governo, il dispositivo che consente di sospendere le norme, di trasformare il diritto in una decisione che va liberata dal perimetro in cui la costringe la legge. La Protezione civile di Guido Bertolaso ha rappresentato e rappresenta appunto questo: il sostanziale svuotamento della partecipazione politica a vantaggio della verticalizzazione della decisione politica. E’ accaduto in alcune occasioni – e va detto – per evidenti necessità, come per i rifiuti di Napoli e il terremoto dell’Aquila. Ma intorno a queste indiscutibili urgenze, la Protezione civile è cresciuta su se stessa per volontà di Berlusconi, in un vuoto di diritto, con emergenze raccontate e immaginate come estreme o improrogabili. Tutto si è trasformato in stato di necessità. Il G8 della Maddalena; i Mondiali di nuoto; l’Expo di Milano; il quattrocentesimo anniversario della nascita di San Giuseppe da Copertino a Lecce; il congresso eucaristico nazionale, previsto ad Ancona nel settembre del 2011. Conta qui osservare il metodo che la fortuna politica e istituzionale di Bertolaso ci propone, o meglio ci conferma.
In uno “Stato legislativo”, dove quel che conta è la legalità e chi esercita il potere agisce “in nome della legge”, le burocrazie sono “neutrali”, uno strumento puramente tecnico che serve orientamenti politici diversi e anche opposti. Berlusconi non vuole essere l’anonimo esecutore di leggi e norme (lo si sa, lo si è già detto). Egli non intende governare in nome della legge, ma in nome della “necessità concreta”. Pretende che lo Stato si muova dietro le “emergenze” (autentiche o artefatte che siano, non importa), vuole che il governo decida delle “situazioni” che ritiene prioritarie. Berlusconi s’immagina alla guida di uno “Stato governativo” che si definisce per la qualità decisiva che riconosce al comando concreto, applicabile subito, assolutamente necessario e virtualmente temporaneo, sempre conflittuale perché esclude e differenzia. Pretende che le burocrazie condividano la capacità di assumersi il suo stesso rischio politico, come fossero un’élite politica e non istituzionale. Ecco come Berlusconi immagina debbano essere i magistrati, “pubblici dipendenti”.
È dunque in queste ragioni – tutte politiche – che va afferrato il più autentico significato della simbiosi tra Berlusconi e Bertolaso: l’uno, l’uomo che decide al di là e oltre le norme; l’altro, l’uomo che lavora nel “vuoto di diritto” che quella decisione crea. Berlusconi forse potrebbe fare a meno dell’intero suo gabinetto, ma non di Bertolaso perché il sottosegretario e direttore della Protezione civile materializza molte condizioni che il premier ritiene costitutive del suo potere: la creazione volontaria di uno stato d’eccezione permanente; una prassi di governo che vive di decreti con immediata forza di legge e trasforma il comando in un ininterrotto “caso d’eccezione”; l’immunità da ogni controllo. Si può concludere chiedendosi come sia possibile in questo clima discutere di riforme costituzionali. Di quale Costituzione si vuole parlare? Di quella che abbiamo o del nuovo “ordine” berlusconiano annunciato a Bonn ieri e a Roma oggi?
La Repubblica 11.02.10
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