In un mondo che sta mutando in profondità e a ritmi rapidissimi, l’Europa ha una reputazione forse immeritata ma non lontana dalla realtà.
Appare come potenza addormentata, che non partecipa alla storia del presente, capace solo di adombrarsi quando è trascurata e non consultata. Non l’ha svegliata la fine della guerra fredda. Non sono bastate a destarla le vicissitudini di un dominio americano sul mondo che da unipolare che era dopo l’89, si è infranto prima in guerre fallimentari, poi nella crisi finanziaria del 2008.
Crisi che perdura, che ha accelerato l’emergere di nuove potenze (Cina, India, Brasile), che ha scalfito il primato non solo dell’America ma dell’Occidente.
Questi eventi erano occasioni straordinarie di risveglio, che gli europei tuttavia hanno sistematicamente mancato. La tendenza a ripetere lo stesso errore significa che c’è del metodo, nella loro follia: più precisamente, c’è l’abitudine a vivere in illusioni che son dure a morire e scambiate con la realtà. Non si spiega altrimenti il malcontento imbronciato con cui i governi hanno reagito alla sfida che lunedì è venuta da Washington: Obama non avrebbe intenzione, dopo esperienze deludenti, di recarsi al vertice euro-americano di Madrid convocato in aprile dalla presidenza spagnola dell’Unione. Come bambini schiaffeggiati, gli europei fanno il muso: Obama si dicono tutti allibiti ci tratta come se non esistessimo. Avevamo tanto sperato in lui ed ecco che si disinteressa all’Europa: è segno che il suo mito è finito, fallito. «C’era una volta Obama», scrivono i commentatori ignorando, in unisono con i governi, la bolla di menzogne in cui l’Europa vive.
Se non fossero ignari è il contrario che scriverebbero: «C’era una volta l’Europa», prima che il sonno la sommergesse. Dovrebbero ringraziare Obama, che denunciando la malattia invita il continente a divenire la potenza che non vuol essere. Ma il risveglio è difficile, in Paesi che di bugie lusinghiere si nutrono: sull’economia, sull’America, su se stessi. Delle molte chimere che dominano in Europa a due anni dalla crisi, quella che riguarda l’America non è l’unica ma è tra le più nefaste.
La malattia europea è oggi fatta di cecità. Cosa non capiamo, precisamente, della crisi? Non ne capiamo la natura perché chiudiamo gli occhi alle mutazioni che essa suscita, sia economiche sia politiche. Non vediamo il mondo post-americano, post-atlantico, che sta emergendo: mondo di cui Obama è espressione. È questa incomprensione che ci rende, agli occhi statunitensi, poco interessanti: noi stessi siamo incapaci di curiosità, di un interessamento che vada oltre l’utile immediato. Lo spiega con lucidità un opuscolo scritto nel novembre scorso da Jeremy Shapiro e Nick Witney per il Council of Foreign Relations creato in Europa dalla Fondazione Soros.
L’avvento di Obama nasce dalla coscienza di questo mondo post-americano.
Nuove potenze salgono grazie alla crisi, non più occidentali. Vecchie industrie faticano a sopravvivere e innovare, in continenti ricchi destinati comunque a crescere di meno.
La potenza americana non dismette la propria forza, ma la sua leadership è deteriorata. Chi denuncia il declino di Obama non vede che il declino oltrepassa la sua persona ed è un fenomeno che proprio lui si trova a dover governare. Il suo presunto disinteresse all’Europa nasce da qui: il Presidente constata che questa consapevolezza non esiste in Europa. Che da noi regna una nostalgia della perduta stabilità atlantica, della vecchia indiscussa egemonia Usa. I vertici istituzionalizzati Europa-Usa sono manifestazioni, ai suoi occhi, di quest’immobile rimpianto: sono luoghi dove non si discutono le cose essenziali, per il semplice fatto che l’Europa come soggetto non vuole esistere. Luoghi dove sulla sostanza prevale il processo, caro agli europei: i lunghi elenchi di temi, il parlare che elude l’agire.
Deluso dal precedente vertice di Praga, Obama teme che anche la riunione di Zapatero finisca in un processo di Madrid.
Il fastidio del Presidente dice qualcosa di importante su di noi, più che su di lui. Dice la nostra incapacità di proposte, e di difendere interessi e convinzioni con un’unica voce governante, non con relazioni bilaterali privilegiate. Dice l’immensa paura europea d’un conflitto con Washington: conflitto vissuto alla stregua d’una colpa anche da finti riottosi come la Francia. Dice la stasi di un continente che non sa entrare nell’era post-americana, né riconoscere come l’Europa non sia più cruciale per la sicurezza Usa. Dipende dagli europei se Obama ricorre a gesti indisponenti per dire, ai sordi volontari, verità ineludibili: la guerra fredda è finita; alla vecchia alleanza atlantica tenete più voi che noi.
La minaccia americana di snobbare l’Europa potrebbe essere un’occasione preziosa, per smettere le illusioni e costruirsi un destino. Se è vero che Obama è stanco dell’Europa proteiforme che gli si accampa davanti con una sfilata di rappresentanti in competizione fra loro, vuol dire che urge un’unità più stretta, anche più antagonista. In una lettera a Van Rompuy, il Presidente che guiderà il Consiglio europeo nei prossimi tre anni e che per giovedì ha convocato un vertice d’urgenza, il liberale Guy Verhofstadt dice allarmato che è l’ora di accelerare l’integrazione, e di guardare in faccia il mondo che muta: un mondo in cui la forza appartiene alle Unioni vaste e non agli inutilizzabili Stati-nazione.
Non vedere il mondo post-americano va di pari passo con la cecità fronte a uno sconquasso che non è solo economico ma politico. Non c’è praticamente governo europeo che dica ai propri elettori il vero stato delle cose: che spieghi come la crisi sarà lunga, come nulla sarà come prima perché proprio quel prima ha condotto al disastro. Vediamo in questi giorni come il nascondimento della verità contamini anche i discorsi sulla crisi dell’auto.
È così anche nei rapporti con l’America. Shapiro e Witney sono espliciti: non è colpa degli Stati Uniti ma degli europei, se la discussione s’insabbia. All’origine c’è l’affastellarsi di quattro grandi illusioni.
L’illusione di poter ricavare qualcosa da rapporti bilaterali o dalla Nato, piuttosto che dalla nascita d’un rapporto Unione-Usa. L’illusione che l’Europa resti cruciale per la sicurezza Usa. L’illusione che gli europei possano affermarsi considerando l’armonia atlantica un fine in sé, un feticcio, quando proprio di dispute c’è bisogno perché l’America ascolti.
L’illusione infine che l’America veda nell’Europa un’intelligenza superiore, anche se inattiva. È l’illusione scrivono gli autori che ebbero i Greci nell’impero romano, fino a quando si accorsero che Cicerone li chiamava, spregiativamente, graeculi.
Alla base di queste chimere c’è quella riguardante lo Stato-nazione.
«Dopo l’attentato alle Torri e la crisi del settembre 2008 scrive Verhofstadt è nato un nuovo ordine mondiale, impietoso con le (ormai sorpassate) illusioni nazionali di gran parte degli Stati europei». I fatti lo confermano: nelle politiche già comunitarie (commercio, concorrenza, moneta) l’Europa è potente, udibile, ascoltata. Non lo è affatto nei settori che gli Stati custodiscono con sovranità che sono simulacri. Verhofstadt è convinto che, se l’Unione avesse avuto un unico leader, al vertice di Copenhagen sul clima la catastrofe sarebbe stata minore.
Il rapporto con l’America è analizzato severamente da chi oggi chiede più Unione: l’Europa è accusata di voler sempre compiacere e sempre ingraziarsi Washington, con relazioni privilegiate da cui ci si aspettano ricompense che Blair lo sa non giungono mai. Difendere i propri interessi col muso duro, agire indipendentemente in Medio Oriente, meditare sulla guerra afghana senza farne un capitolo dei rapporti euro-americani: questo è ricominciare la storia.
Il sonno è confortevole, pensano gli europei. Meglio aspettare che la tempesta passi: «Calati juncu ca passa la china», càlati giunco ché passa la piena, dice il motto mafioso fatto proprio dai governi dell’Unione. Sarkozy ha ostentato indifferenza, giovedì, dopo un incontro con Angela Merkel: «Dov’è il dramma se Obama non viene?». Il guaio è che il dramma persiste, anche se il giunco si piega. L’Europa rischia l’irrilevanza. Rischia di essere un continente messo fuori gioco in irresistibile declino. È quello che accadrà, se non si sveglia in tempo.
La Stampa 07.02.10