La cronaca della resa industriale di un Paese inizia martedì scorso alle 21.00 nella Sala Verde di Palazzo Chigi. Attorno a un lungo tavolo, sono riuniti il governo rappresentato da Gianni Letta, i sindacati e Alcoa, multinazionale americana di Pittsburgh. Fuori, invece, mille lavoratori e le loro famiglie, venute in nave, in auto, in pullman, dalla Sardegna e dal Veneto. Si discute del futuro degli stabilimenti di Portovesme e Fusina. Di più. Si discute delle sorti di un intero settore di produzione: quello dell’alluminio. Che l’Italia rischia di perdere senza colpo ferire. La società è rappresentata da Giuseppe Toia, amministratore delegato per l’Italia. Da noi è il numero uno,ma non ha deleghe. È solo il manager di una filiale che sarà destinata a sparire. La riunione viene aperta o da Letta. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio si siede, chiede silenzio e legge un comunicato. Concordato con Berlusconi, impegnato in Israele. Scandendo bene le parole, Letta offre ad Alcoa l’impegno ottenuto in sede Ue «per un esame prioritario del dossier italiano a Bruxelles». Significa che appena la nuova Commissione sarà insediata, il 10 febbraio, il caso Alcoa sarà subito discusso. Bruxelles deve dare il via libera alla possibilità di applicare, in materia energetica, tariffe agevolate per le aree in crisi. Nel caso italiano Sardegna e Sicilia. A garanzia di quanto letto Letta rende esplicita una telefonata tra lo stesso Berlusconi e Manuel Barroso con la quale il presidente della Commissione si dice pronto a sostenere un iter accelerato per la pratica. Che, sostiene Letta, dovrebbe concludersi il 22 marzo nel Parlamento italiano con la conversione in legge del decreto che riduce i costi energetici. In cambio il governo chiede ad Alcoa, che puògià lavorare con le tariffe agevolate, di non chiudere gli impianti. Sono le 21.30. Toia, che non ha poteri,dopo aver ascoltato l’esposizione del governo, si alza. E si dirige nella stanza attigua.Deve telefonare a Pittsburgh, al quartier generale, per capire cosa ne pensano dall’altra parte dell’oceano. Toia manda anche, via fax, il documento di Letta. Oradopo ora, alla spicciolata, tutti i ministri spariscono dalla Sala Verde. Letta, Scajola, Brunetta, Sacconi, Ronchi, si trasferiscono a trattare direttamente con il manager, che a sua volta è in contatto con l’America. Il clima si fa pesante. Alcoa non molla. Non si fida delle promesse italiane. Teme che l’Europa non mantenga gli impegni. Ma è solo una scusa, è tattica. Letta pretende allora che Toia vada negli Stati Uniti a trattare di persona e tornare con una delega forte. Alle 1.30 si torna tutti al tavolo. Letta comunica ai sindacati di avere chiesto al manager di andare negli Stati Uniti. È l’unica concessione ottenuta dopo oltre quattro ore di trattative. A quel punto Toia prende la parola. E dice che lui andrà a Pittsburgh ma nel frattempo il governo italiano può attivare la cassa integrazione per gli stabilimenti. L’inizio della fine. La proposta fa infuriare Sacconi. Che sbatte i pugni sul tavolo e comincia a urlare. «Non potete fare come cazzo vi pare, se fate come cazzo vi pare, allora anche noi faremo come cazzo ci pare e ve la faremo pagare». Interviene anche il sindacato. Che chiede formalmente al governo di requisire gli impianti nel caso Alcoa, non receda dalle sue posizioni. L’idea è quella di scongiurare la fermata. Una volta spenti i macchinari non possono più essere avviati, se non spendendo una cifra esagerata (dai 14 ai 16 milioni di euro). Non c’è più niente da dire. La notte di trattative si conclude alle 3.11. Si conclude con Toia che sale sul primo volo disponibile e un intero paese senza più industria dell’alluminio. I lavoratori, che nella notte hanno dormito in piazza Montecitorio, decidono di andarsene. Rimane soloun presidio conuna manciata di operai. È già mattino. Poco dopo le 11 il governo emana un comunicato finale nel quale ribadisce «la richiesta all’azienda affinché nessuna azione unilaterale venga assunta prima dell’incontro riconvocato per lunedì 8 febbraio». Con quali prospettive. «Poche» sostiene Susanna Camusso della Cgil. Gli americani hanno l’intenzione di usare gli impianti italiani à la carte. Usarli cioè solo quando servono in casi particolari. Magari quando ci sono picchi di produzione. Chiuderemasenza chiudere. Risparmiare, trasferendo la produzione chissà dove, e impedire che altri possano utilizzare gli stessi impianti e fare concorrenza. Il governo sta pensando, come arma di ricatto, di ritirare una fidejussione da 300 milioni a garanzia di un debito di Alcoa verso Bruxelles. Ma potrebbe non bastare. Per questo i sindacati metalmeccanici di Fiom, Fim e Uilm chiedono a tutte le istituzioni «uno sforzo senza precedenti in queste ore drammatiche per Alcoa», Uno sforzo che contempli anche il commissariamento. Sarebbe quanto meno un segnale. La resa non sarebbe definitiva.
L’Unità 04.02.10
Pubblicato il 4 Febbraio 2010