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"La denuncia: nei Cie non c’è posto per i diritti", di Cinzia Zambrano

In quasi tutti l’assistenza sanitaria è carente, in alcuni mancano addirittura le coperte e la carta igienica. È la fotografia scattata da Medici senza frontiere nei 21 centri di detenzione per gli immigrati. Autorità sanitarie assenti. Assistenza legale insufficiente, come pure quella sociale e psicologica. Servizi scarsi e scadenti. Impianti di riscaldamento spesso non funzionanti. Beni di prima necessità carenti: niente coperte, né carta igienica. Spazi ridotti, 25 metri quadrati da condividere in 12. Strutture fatiscenti. Episodi di autolesionismo. Risse. Rivolte. Ecco come si vive «al di là del muro», la cortina che nasconde agli occhi di tutti (o quasi) il dramma di migliaia di persone, uomini donne bambini, trattenue nei Cie, (Centri di identificazione ed espulsione), nei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e nei Cda (Centri di accoglienza) italiani. Condizioni di vita ridotte al minimo, delle vere e proprie carceri, con muri alti 4 metri e filo spinato, tanto che per un clandestino, «la permanenza in un Cie fa più paura di un rimpatrio nel paese di origine».
A fornirci la drammatica fotografia è Medici senza Frontiere. Che a distanza di 5 anni, unica organizzazione indipendente a scrivere un rapporto sui Cie e Cara, è tornata nei luoghi di detenzione per gli immigrati privi di permesso di soggiorno. Il risultato? Una netta bocciatura. Per Msf nulla, o poco, è cambiato: nei centri visitati la scarsa tutela dei diritti fondamentali è la norma. E per due di essi, i Cie di Trapani e Lamezia Terme, l’organizzazione umanitaria chiede l’immediata chiusura.
INDAGINE
L’indagine, riportata nel rapporto «Al di là del muro. Viaggio nei centri per migranti in Italia», mostra come a più di 10 anni dall’istituzione dei centri per migranti, la gestione generale sembra ispirata ancora oggi a un approccio emergenziale. Eppure
dall’anno scorso il governo di centro-destra ha esteso il periodo massimo di trattenimento all’interno dei Cie da 2 a sei mesi. Un periodo che sfora la «durata emergenziale», rendendo la detenzione non più misura straordinaria e temporanea, ma di lungo periodo.
Sono 21 i centri osservati. In alcuni, come in quelli di Lampedusa e Bari, agli operatori è stato negato l’ingresso agli alloggi nonostante la visita fosse stata comunicata con diverse settimane di preavviso. «Rispetto alle visite condotte nel 2003 poco è cambiato, molti sono i dubbi che persistono, su tutti la scarsa assistenza sanitaria, strutturata per fornire solo cure minime, sintomatiche e a breve termine. Stupisce inoltre l’assenza di protocolli sanitari per la diagnosi e il trattamento di patologie infettive e croniche. Mancano soprattutto nei Cie come ad esempio in quello di Torino, i mediatori culturali senza i quali si crea spesso incomunicabilità tra il medico e il paziente. Sconcerta in generale l’assenza delle autorità sanitarie locali e nazionali», racconta Alessandra Tramontano, coordinatrice medica di Msf in Italia. La vita nei Cie dice ancora la Tramontano, dove i ritmi della giornata sono scanditi solo dai pasti e dal dormire, dove la gente non fa nulla, «aggrava uno stato mentale, un disagio dopo l’odissea vissuta per arrivare fino a qui, che crea un vero e proprio stress per molti pazienti». Il rapporto evidenzia come di fatto nei centri convivono negli stessi ambienti vittime di tratta, di sfruttamento, di tortura, di persecuzioni, così come individui in fuga da conflitti, altri affetti da tossicodipendenze, da patologie croniche o della sfera mentale. Sono luoghi dove coesistono e s’intrecciano in condizioni di detenzione storie di fragilità estremamente eterogenee tra loro da un punto di vista sanitario, giuridico, sociale e umano, a cui corrispondono esigenze molto diversificate. Quasi sempre non soddisfatte. «I Cie di Trapani e Lamezia Terme andrebbero chiusi subito perché totalmente inadeguati a trattenere persone in termini di vivibilità. Ma anche in altri Cie abbiamo riscontrato problemi gravi: a Roma mancavano persino beni di prima necessità come coperte, vestiti, carta igienica, o impianti di riscaldamento consoni», denuncia Msf. Per non parlare dei Cara di Foggia e Crotone: «12 persone costrette a vivere in container fatiscenti di 25 o 30 metri quadrati, distanti anche un chilometro dai servizi. Fra l’altro, l’assenza di mensa obbliga centinaia di persone a consumare i pasti sui letti o a terra».
L’Unità 03.02.10

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