Uomini con la testa di paglia ci governano, non solo in Italia. Non stupisce lo strano silenzio che circonda, d’un tratto, la guerra iniziata da americani ed europei in Afghanistan, quasi nove anni fa. Guerra senza più bussola, che nel 2001 scacciò i talebani e ora è tutta intenta a facilitare il loro ritorno al potere, addirittura remunerandoli in cambio di qualche gentilezza sulla costituzione. Guerra di cui «abbiamo ormai abbastanza», ammette con candore lo stesso comandante della Nato in Afghanistan, generale McChrystal. Guerra degradata a simulacro, già da tempo. Nessun occidentale vuol finirla, nessun ministro della difesa rinuncia a foto di gruppo con soldati al fronte, ma in cuor suo ciascuno sa la verità: la guerra che solennemente vien continuata è in fondo già considerata perduta. La commedia è recitata da voltagabbana ignari del pudore, che hanno bisogno della messa in scena per evitare l’onta di una fuga. Solo per i soldati e i loro capi il conflitto non è simulacro ma dura prova in cui si rischia la morte, si guadagna l’onore, si merita una pietà ancora più grande. Degenere e posticcia, questa guerra è paradigma dei tempi che viviamo. Sono uomini vuoti che vediamo ai comandi della politica, come nel poema di Thomas Eliot: «Siamo gli uomini vuoti /Siamo gli uomini impagliati /Che appoggiano l’un l’altro /La testa piena di paglia». Figure senza forma, ombre senza colore, forza paralizzata, gesto privo di moto: da sempre, le facce e le voci dei voltagabbana «sono quiete e senza senso».
La sete di negoziare col nemico fino a ieri equiparato al male assoluto è vasta e si estende; anche quando viene dissimulata o perfino negata. È anche una via obbligata e necessaria, quando la vittoria si fa difficile: con chi trattare, se non con l’avversario? Non è la trattativa in sé a colpire negativamente, ma l’impressionante vuoto nelle teste, l’afasia del linguaggio, la presunzione che la disfatta sia una vittoria. Colpisce infine la cecità su una guerra antiterrorista che complessivamente è in stato di degenerazione: quasi dieci anni dopo l’assalto alle Torri di New York, Stati Uniti ed europei hanno praticamente perso dappertutto. Il pericolo terrorista s’è spostato in Pakistan e Yemen, e non smette di nuotare nell’azzurro liquido del mondo-web. Blair è costretto a giustificare la guerra irachena davanti alla Commissione Chilcot, a Londra, e a sventolare bugie come fossero bandiere. Un’analoga commissione, il 12 gennaio in Olanda, ha già definito illegale la partecipazione all’offensiva in Iraq.
Così sfila davanti al nostro sguardo una generazione di politici europei (nel Regno Unito Blair, in Olanda Balkenende, in Italia Berlusconi) che senza tema di contraddirsi dice, oggi, quel che ancor ieri considerava eretico.
Era eretico patteggiare col nemico, ma ora si può, si deve, è cosa buona e bella. La svolta era nell’aria da mesi, ma ora s’è fatta urgente per varie ragioni. Sono gli stessi militari favorevoli all’aumento di truppe a far capire che la guerra, essendo invincibile, è in pratica finita: primo fra tutti il generale McChrystal, che tanto ha influito sulle scelte di Obama.
In un’intervista di domenica scorsa al Financial Times, auspica anch’egli i negoziati e dichiara, perentorio: «Come soldato, il mio personale sentimento è che di guerreggiare ne abbiamo abbastanza. Non puoi fare alcun progresso politico, fin tanto che guerreggi». Karl Eikenberry, ambasciatore Usa in Afghanistan, disse precisamente questo, in due cablogrammi inviati nel mese di novembre al Dipartimento di Stato: la guerra non era vincibile, e l’aumento di soldati un rischio anziché un’opportunità. Pubblicati dal New York Times il 26 gennaio, i due promemoria parlano chiaro: Karzai «non è un partner strategico adeguato», disinteressato com’è a «erigere un governo e una sovranità». L’unica cosa che Karzai vuole è una «guerra senza fine al terrore» (la guerra che Bush aveva promesso), grazie alla quale Kabul riceve soldi e non deve ricostruirsi come Stato funzionante e non corrotto.
A questa ragione se ne aggiunge un’altra, non meno decisiva: la defezione del Pakistan, senza il quale la sconfitta è certa. Le forze talebane legate al terrorismo hanno infatti lì le loro basi, non in Afghanistan. E le notizie che giungono da Islamabad sono devastanti. Il 21 gennaio, durante una visita del ministro della Difesa Robert Gates, il governo pakistano ha annunciato la sospensione – per almeno un anno – di ogni operazione antiterrorista nel Waziristan del Nord: nella zona, cioè, dove son rifugiati i talebani più duri (la rete Haqqani, responsabile dell’attacco del 18 gennaio al palazzo presidenziale di Kabul).
La terza ragione è la persona di Karzai. Già screditato dai brogli elettorali, il Presidente è profondamente esecrato dalla propria popolazione. Lo dice l’agenzia Onu che si occupa di droga e corruzione (Unodc), in un rapporto del 19 gennaio: il 59 per cento degli intervistati giudica la «disonestà pubblica e la corruzione» più preoccupante ancora dell’insicurezza (54 per cento) o della disoccupazione (52 per cento). Nel 2009, i cittadini afghani hanno dovuto pagare tangenti a funzionari dello Stato per un totale di 2,5 miliardi di dollari (l’equivalente di quel che hanno ricavato dal traffico di oppio, il 23 per cento della ricchezza nazionale). Corruzione in Afghanistan vuol dire Karzai, e Karzai vuol dire forze alleate, non solo americane ma dei partecipanti alla missione (in ordine decrescente Inghilterra, Germania, Francia, Italia, ecc). Ovvio che tutti costoro siano visti come occupanti.
Anche questa guerra, come è successo per la crisi economica, è stata una bolla gonfiata da frettolose supposizioni, menzogne ideologiche, che infine s’è scontrata con la realtà ed è scoppiata. Era una bolla speculativa anche il linguaggio che l’accompagnava, e che contagiò tanti politici e intellettuali d’Europa. Fu dipinta come riedizione della guerra mondiale contro Hitler, e chi obiettava era subito tacciato di appeasement, di accomodamento col terrorismo islamico nel quale s’incarnava in questo secolo il male assoluto. Un male più che mai mostruoso, perché riviveva anche da morto come uno zombi: per questo Bush e Cheney dissero che la guerra sarebbe durata generazioni. Lo storico Marc Bloch scrisse sull’invasione nazista della Francia un libro essenziale: si intitola La Strana Disfatta, perché la guerra fu condotta con le menti e le armi del conflitto precedente, ignorando incomprensibilmente il tempo presente. Proprio questo è accaduto in Afghanistan, con la variante che Hitler è stavolta invitato a tornare al potere.
Obama non ha cambiato strategia, ma da qualche tempo ha smesso di parlare di guerra necessaria (o «esistenziale», come diceva Frattini pochi mesi fa, senza ben sapere quel che diceva). Nel discorso del 2 dicembre, il Presidente Usa ha addirittura fissato il giorno in cui le operazioni finiranno: nel 2011 si torna a casa, non si attende la vittoria come di solito succede nelle guerre. Tutti vogliono tornare a casa, pur continuando a parlare di guerra giusta. Per questo la disfatta è così strana; per questo è così surreale il silenzio che avviluppa i negoziati con i talebani.
È strana, la disfatta, non solo perché è una ritirata mal confessata. È soprattutto una strage di parole: solenni, di breve durata, ma dure a morire. Dopo 9 anni, molti morti e crudeli torture inflitte nelle prigioni di Bagram e Guantanamo, ecco l’arcinemico talebano trasformato in interlocutore meritevole di un Fondo internazionale di aiuti. Ecco Karzai che guida le danze della riconciliazione, da noi trattato come il sovrano che non è. In fondo non è interamente sua la colpa. Lui propone patti espliciti col nemico; Holbrooke usa eufemismi, e il patto lo chiama «reintegrazione». Reintegrazione fa più fine, e ha il pregio di essere una parola talmente grigia da passare inosservata.
Così deve concludersi una guerra cominciata per motivi tutt’altro che ignobili, combattuta comunque con coraggio, proseguita malamente, culminata infine nell’ipocrisia. Parafrasando l’epilogo triste che Eliot riserva agli uomini impagliati, è questo il modo in cui finisce la grande guerra al terrore. Finisce non con uno schianto, ma un flebile lamento: Not with a bang, but a whimper.
La Stampa 31.01.10