Cari colleghi, siamo in prossimità di quella che viene mediaticamente definita una “grande riforma” ma che rischia di rivelarsi un clamoroso passo indietro dell’attuale assetto della secondaria di secondo grado. Riteniamo per questo necessario richiamare la vostra attenzione su alcune questionichiave, attorno alle quali si giocherà, nei prossimi anni, la capacità della scuola pubblica di adempiere al mandato assegnatole dall’art. 3, comma2, della Costituzione. Oggi più che mai la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno esercizio della cittadinanza non può che configurarsi come la priorità assoluta per ogni comunità professionale di docenti e dirigenti scolastici.
Il ruolo della scuola, infatti, si gioca sul terreno della cittadinanza, cioè sulla capacità di formare donne e uomini capaci di governare la propria esistenza. Il che vuol dire, educare al rispetto delle regole e delle persone, alla consapevolezza dei propri diritti, a interpretare i processi sociali, economici e scientifici in atto, ad usare, in contesti diversi dalla scuola, le conoscenze e le competenze apprese a scuola.
Formare mentalità critiche, capaci di risolvere problemi, abituare al dubbio, all’imprevisto, alla curiosità e, contemporaneamente, sviluppare un pensiero razionale e scientifico, capace di confrontarsi con la dimensione storica e con ogni aspetto dell’espressività umana, è compito fondamentale della scuola, tenuta a far acquisire quei saperi cosiddetti di cittadinanza indispensabili oggi per vivere, lavorare, continuare a studiare.
Siamo però dell’avviso che si sia pericolosamente rinunciato a dibattere e a confrontarsi sulle finalità del nostro sistema scolastico, sulla sua organizzazione, su che cosa sia utile insegnare e sui modi per insegnarlo. E che si sia rinunciato a trovare le soluzioni più opportune per combattere dispersione e abbandoni, oltre che per innalzare i livelli di apprendimento di bambini e ragazzi. I regolamenti di riordino della secondaria superiore – o, più precisamente, delle secondarie – irrompono nella scuola al di fuori di un progetto culturale-educativo
condiviso, capace di rimettere la scuola stessa in sinergia con le grandi questioni del mondo contemporaneo. L’universalizzazione degli scambi, la globalizzazione delle tecnologie, lo sviluppo della società dell’informazione e della comunicazione, moltiplicano per gli individui le occasioni di accesso al sapere. Cambiano contemporaneamente le competenze per accedere al sapere, così come cambiano continuamente i contenuti del sapere.
Ne consegue che è necessario apprendere di più e meglio a ogni livello ed età e che è necessario ripensare profondamente alle conoscenze che servono alla scuola. Sicuramente serve più cultura scientifica e tecnologica, ma anche un sistema efficace di educazione per adulti, perché ognuno possa tornare in formazione nell’arco della propria vita. Ma per ritornare più volte a scuola nel corso della propria esistenza, per acquisire le competenze richieste dalla celerità con cui si trasformano i saperi in tutti i campi disciplinari, è necessario aver acquisito conoscenze e competenze molto solide nella prima fase della vita. Serve, dunque, un percorso scolastico obbligatorio che comprenda il primo biennio della secondaria superiore. È, infatti, solo tra i 14 e i 16 anni che si possono acquisire, in tutta la loro valenza, alcune fondamentali conoscenze: è solo in prossimità di quella età e non prima, che i saperi si consolidano per persistere per la vita, diventando propedeutici ad altri nuovi saperi.
Alla luce di queste istanze culturali e sociali, la scuola superiore avrebbe dovuto vedere una riforma complessiva e organica di tutto il suo assetto ordinamentale, con una nuova articolazione del suo impianto culturale, il rinnovamento dei modi di insegnare e apprendere, alcune nuove finalità educative, un biennio obbligatorio, unitario e orientativo. Con l’obiettivo di costruire percorsi culturali di equivalente valenza educativa per porre finalmente termine alla gerarchizzazione tra le varie tipologie di istituti. In altre parole l’iscrizione a un Tecnico o a un Professionale non dovrebbe più rappresentare una scelta di ripiego, connotata socialmente, ma un’opzione consapevole, determinata da interessi e competenze che trovano in quelle scuole risposte e valorizzazione personale. Sarebbe stato quindi doveroso e utile un dibattito preliminare sui nodi di fondo, una convergenza di intenti e propositi nelle soluzioni da adottare che invece sono stati del tutto assenti.
Che cosa vuol dire oggi cultura “disinteressata”? Qual è la cultura che serve a formare cittadini consapevoli?Quali conoscenze sono fondamentali? Che cosa comporta in termini di impegno morale e professionale l’innalzamento dell’obbligo di istruzione? Quali materie devono far parte dell’area comune? Con quali politiche sociali e territoriali si possono contrastare dispersione e abbandoni? Come accogliere e integrare bambini e ragazzi non italiani? Quali investimenti, quali risorse umane ed economiche servono alla scuola?
Le scelte del governo purtroppo sono state fatte senza confronto alcuno, senza verificare le esperienze positive delle scuole, senza pensare alla sostenibilità delle soluzioni che stanno per essere adottate. In pochi a decidere il destino di tanti. Nessun confronto parlamentare. Nessun confronto con il mondo della scuola. Nessun dibattito nel Paese. Mortificato il ruolo degli Enti locali e delle Regioni. Dissolta l’autonomia delle Istituzioni scolastiche. Non si è dato neppure ascolto alla ragionevole e insistente richiesta di rinviare di un anno la messa a regime del nuovo ordinamento per consentire almeno a studenti e famiglie di compiere le scelte in piena consapevolezza.
Ci troviamo di fronte a cambiamenti che hanno come prevalente obiettivo il drastico risparmio di spesa. Come se la cittadinanza e la democrazia fossero diventate un costo insostenibile per il nostro Paese. Ma non c’è solo questo: c’è in gioco anche un disegno volto a riproporre una cultura a compartimenti stagni, che segnerà profonde divisioni tra cittadini “pensanti” e cittadini “consumatori”. Funzionale a una simile prospettiva è, infatti, una scuola strutturata gerarchicamente, dove la separazione fra culture, tra sapere e saper fare, è il caposaldo su cui poggerà l’impalcatura culturale e organizzativa del “riordinato” sistema scolastico. Come se, in un quadro di saperi e competenze di cittadinanza, fosse oggi possibile pensare a una istruzione che si fondi su una cultura solo linguistico-letteraria o solo scientifica e tecnica o solo ‘professionale’, a spendibilità immediata. Un tale impianto è poco adatto alle sfide che la complessità pone alla scuola e al Paese. Eppure i regolamenti ripropongono un ordinamento scolastico che vede, dopo la terza media, da una parte i Licei destinati ai ragazzi “più bravi”, con famiglie in grado di sostenere la scelta di studi prolungati (il Liceo Classico in testa), dall’altra gli Istituti Tecnici per i cosiddetti “quadri intermedi”; infine i Professionali per chi svolgerà attività puramente esecutive, scelta residuale per i ragazzi più deboli, culturalmente e socialmente. Non basta: il comma 4 bis dell’articolo 64 della legge 133/08 recita: “L’obbligo di istruzione si assolve anche nei percorsi di istruzione e formazione professionale”. E ora un emendamento approvato dalla Commissione Lavoro della Camera consentirebbe a regime a tanti quindicenni, considerati un fastidioso e costoso ingombro per la scuola, di assolvere l’obbligo di istruzione persino nell’apprendistato. Una scelta sbagliata e ingiusta che ha l’obiettivo di “smistare” i più deboli verso un canale privo di contenuto culturale e di dubbia efficacia formativa. L’idea è sempre la stessa: selezionare ed escludere prima che si può, senza offrire alcuna possibilità di rimotivazione allo studio e di recupero scolastico agli alunni che più ne hanno bisogno. Per questa strada, che canalizza precocemente e rigidamente i percorsi di istruzione e formazione, il Paese è destinato al declino: civile, culturale e democratico; a restare fanalino di coda nelle sfide internazionali, nello sviluppo produttivo, nella ricerca e nella innovazione.
E mentre l’Unione Europea, l’Ocse e Bankitalia dicono che bisogna investire di più in conoscenza, l’Italia fa il percorso inverso: taglia drasticamente risorse, tempo scuola, insegnanti, torna indietro sull’età dell’obbligo di istruzione e prepara un sistema di istruzione che per l’organizzazione didattica e le indicazioni ndi contenuti che propone, abbasserà il profilo culturale della popolazione. Non solo: proprio perché chiude gli occhi sul futuro di tanti agazzi, proprio perché canalizza e separa precocemente contribuirà a dividere ulteriormente la società, creando nuove e più forti disuguaglianze. Per questo è urgente che la scuola superiore si riappropri della sua funzione di emancipazione culturale e sociale. Tutte
le esperienze didattiche caratterizzate da spirito di inclusione, da innovazione metodologica e didattica e da cooperazione professionale devono essere rimesse sapientemente in campo, sfruttando ogni possibile spazio di autonomia scolastica.
La democrazia di un Paese si misura anche dalla qualità del suo sistema di istruzione e formazione. Oggi in Italia sta pericolosamente circolando l’idea che la qualità sia favorita
dal taglio di risorse. Non è accettabile. A una scuola secondo Costituzione occorrono invece elaborazione e pensiero, finalità e obiettivi condivisi, investimenti a lungo raggio: sull’edilizia scolastica, sul diritto allo studio, sulla professionalità docente, sull’organico funzionale, sull’autonomia didattica e organizzativa, sulla ricerca e sperimentazione. Elaborazione e investimenti capaci di restituire alla scuola pubblica le finalità e i compiti che le sono attribuiti dalla nostra Carta costituzionale. Con l’auspicio che tutti gli insegnanti italiani si riapproprino del protagonismo professionale e culturale necessario per alzare la testa e far sentire la loro voce in questo momento così difficile per la vita della scuola e del Paese.
Pubblicato il 1 Febbraio 2010