Modesto esercizio definitorio: di che cosa parliamo, quando parliamo di «riforma della giustizia»? Non certo della giustizia, come “servizio”, la prestazione che uno Stato ha il dovere di offrire ai cittadini e, i cittadini, il diritto di avere dallo Stato. Quel “servizio”, e non da oggi, è un arnese arrugginito. Non serve a nessuno. Né al cittadino né allo Stato. Né al «presunto innocente» né alla vittima del reato. Né a una strategia di fiducia reciproca tra i cittadini o tra il cittadino e lo Stato né allo sviluppo economico del Paese (i ritardi della giustizia “costano” a imprese e consumatori 2,3 miliardi di euro, ogni anno).
Nel 2008, dopo il fallimento della XIV legislatura, Berlusconi si presenta agli elettori con un ambizioso programma: restituire efficienza alla giustizia italiana. Da allora, a ogni sortita pubblica, il suo ministro, Angelino Alfano, annuncia contro le lentezze e l’impotenza della machina iustitiae mirabilie e successi a portata di mano. Anche nell’inaugurazione dell’anno giudiziario non ha lesinato «consigli per gli acquisti». Dovunque intervenga, le frasi del guardasigilli suonano sempre più o meno così: «Entro l’anno… entro pochi mesi… già la prossima settimana… approveremo… la riforma del processo penale, la riforma del processo civile, misure di efficienza di rango non legislativo, interventi sul sistema carcerario, una riforma della magistratura ordinaria, una riforma delle professioni del comparto giuridico economico…».
Sistematicamente, nonostante i numeri predominanti della destra in Parlamento, il catalogo propagandistico dei trionfi finisce confinato nel registro delle buone intenzioni destinate all’inerzia. Non si scorge nessuna riforma di sistema. Nessuna correzione. Nessuna cura. Non vedono la luce neppure provvedimenti a basso impatto economico come la revisione delle ottocentesche circoscrizioni (sono 165, potrebbero diventare 60). O l’introduzione della posta elettronica per l’esecuzione delle notifiche (cinquemila cancellieri ne consegnano brevi manu agli avvocati 28 milioni ogni anno). O una depenalizzazione dei reati minori che consenta di riservare il processo penale, che costa molto, alle questioni di maggiore allarme sociale. O il rinnovamento della professione forense: «più avvocati, più cause» e gli avvocati in Italia sono 230mila, 290 ogni 100 mila abitanti, contro 4.503 magistrati giudicanti in un rapporto avvocato/giudice strabiliante che demolisce il processo civile.
Inutile dire della riforma di un processo penale, al tempo stesso obeso e avvizzito, che ibrida tutti i difetti dei possibili modelli (inquisitorio, accusatorio) trasformandolo in un gioco dell’oca interminabile e incoerente. Gli atti dell’indagine non valgono per dibattimento (in coerenza con la logica del processo accusatorio) però le garanzie del dibattimento sono state estese alle indagini preliminari (in contraddizione con la logica accusatoria). Così oggi l’indagine ? e non il processo ? è un dibattimento anticipato mentre il rinvio a giudizio, più che essere una valutazione della necessità di un dibattimento, è diventato una sentenza sull’istruttoria (sul lavoro del pubblico ministero). Il processo ne è soffocato. La sovrabbondanza di assillanti formalismi lo disintegrano in una rosa di microprocessi. Giudizio sull’inazione (archiviazione). Giudizio sui tempi dell’azione. Giudizio sulle modalità dell’azione (misure cautelari). Giudizio sulla completezza delle indagini e sul fondamento dell’azione (udienza preliminare). Un processo, in cui ogni atto può generare un microprocesso, che richiede avvisi, notifiche, discussioni, deliberazioni e consente ripetute impugnazioni, non potrà avere mai una «ragionevole durata». Figurarsi se può essere «breve» come vuole, per amore di se stesso, Silvio Berlusconi.
In un esercizio definitorio, si può essere allora tranchant: quando il governo dice che, con la «riforma», vuole restituire efficacia, equilibrio e ragionevolezza all’amministrazione della giustizia, sappiate che mente a gola piena. Quando parla di «riforma della giustizia», Berlusconi, il suo ministro, la maggioranza alludono o si riferiscono a un obiettivo preliminare: un provvedimento-salvacondotto che assicuri l’immunità al capo del governo. Oggi, all’esame del Parlamento non c’è alcuna proposta di riforma sistemica, ma «processo breve», «legittimo impedimento», intercettazioni telefoniche, una riforma del processo che vieta ai pubblici ministeri di «cercare» notizie di reato, lavoro che viene assegnato al poliziotto non più alle dipendenze delle procure, ma del ministro dell’Interno. Alla luce del sole, l’esecutivo lavora soltanto a espedienti che possano proteggere l’Eletto dalla legge, per il passato e il presente, e metterlo in sicurezza per il futuro. La «riforma della giustizia» può attendere.
Quel che accadrà è trasparente come un cristallo. Berlusconi non metterà mai la machina iustitiae in condizione di funzionare meglio nell’interesse del cittadino, fino a quando una nuova Costituzione, nel suo interesse, restaurerà «la legittimazione della politica» («finalità positiva» anche per alcune oligarchie del centro-sinistra) ridefinendo a vantaggio dell’Esecutivo i poteri della magistratura. Per dirla con un oligarca della destra, «il premier va messo in grado di governare tutelandolo dall’ordalia delle procure politicizzate, e la volontà popolare va protetta insieme a lui» (Denis Verdini). Non c’è altra intenzione dietro le parole di Alfano quando dichiara: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge e la legge la fa il Parlamento». Traduciamo.
Il diritto si appresta a diventare soltanto legge e la legge soltanto potere, strumento di un’avventura del potere. «La “forza di legge”, di per sé ? scrive Gustavo Zagrebelsky guardando alla storia ? non distingue diritto da delitto. Affaristi, avventurieri, ideologhi fanatici e perfino movimenti criminali, organizzati con tecniche efficaci per la conquista spregiudicata del potere, hanno preteso legittimità per le loro azioni alla stregua di leggi fatte da loro stessi, per mezzo del controllo totale delle condizioni della produzione legislativa. Con la conseguenza che i poteri, ch’essi venivano attribuendosi, potevano certo dirsi legittimi nel senso di legali, essendo al contempo scientificamente qualificabili come usurpazioni, cioè poteri autoproclamati e autoconferiti» (Intorno alla legge). È quel che accadrà in Italia, nei tre anni che chiuderanno la XVI legislatura?
La Repubblica 30.01.10