“No al ricatto della Fiat!” grida in coro la politica, di fronte all’annuncio di due settimane di Cassa integrazione in tutti gli stabilimenti di quella che fu la Real Casa dell’automobile italiana. E una volta tanto risulta quasi difficile dar torto ai demagoghi di Palazzo, che si illudono di risolvere i problemi di uno dei più importanti settori produttivi del Paese “drogandolo” di tanto in tanto con un’iniezione di incentivi pubblici. Diciamolo subito: l’azienda ha palesemente sbagliato la sua tattica. La politica sta clamorosamente sbagliando la sua strategia. E tutt’e due sembrano non aver compreso fino in fondo com’è cambiato il profilo e il ruolo di una grande impresa nel pianeta globale.
La Fiat ha sbagliato la sua tattica. Lunedì scorso il consiglio di amministrazione ha annunciato i dati di consuntivo 2009 e le stime di previsione 2010. Per l’anno passato la Fiat chiude con una perdita netta di 848 milioni, i ricavi scendono del 15,9%, il fatturato dell’auto cala del 3,5%, il risultato operativo si riduce a 719 milioni e l’indebitamento netto a 4,4 miliardi. Per l’anno nuovo le prospettive non sono incoraggianti. Il Cda ipotizza una flessione del 12% dei mercati europei, e “senza il rinnovo degli incentivi” prevede ricavi inferiori ai 2,5 miliardi, un utile della gestione ordinario inferiore di 400 milioni e un indebitamento che torna sopra quota 5 miliardi. Posta in questi termini, la questione della rottamazione assomiglia a una “pistola” carica, depositata sul tavolo della trattativa con il governo. Ma intanto, nonostante un “anno devastante in modo impensabile” (come Sergio Marchionne ha definito il terribile 2009) il consiglio annuncia con soddisfazione il “ritorno al dividendo”: 0,17 euro per le azioni ordinarie, 0,325 per le risparmio, per un totale di 237 milioni.
“Lo dovevamo ai nostri azionisti”, dice l’amministratore delegato. Legittimo: profitti e dividendi sono l’essenza del capitalismo. E un sistema migliore per far crescere l’economia il mondo non l’ha ancora inventato.
Ma solo due giorni dopo, di fronte all’ambiguità del governo sugli incentivi e alla rabbia del sindacato su Termini Imerese e Pomigliano, la “pistola” del Lingotto spara il colpo a sorpresa della Cassa integrazione. Almeno 300 euro in meno nella busta paga di tutti i lavoratori Fiat: tanti, per un salario medio di 1.200 euro al mese. Troppi, per un’azienda che il mercoledì chiede un sacrificio ai suoi dipendenti, mentre il lunedì aveva annunciato un regalo ai suoi azionisti. C’è dunque un errore nei tempi: per correttezza, una comunicazione così “asimmetrica” dal punto di vista sociale (e persino morale) doveva essere evitata. Ma c’è anche un errore nei modi: con la politica, e con le organizzazioni sindacali, non si può solo fare a sportellate. Si deve cercare il confronto, prima di arrivare allo scontro, come si ostina a ripetere Luca di Montezemolo.
Qui non è in discussione il diritto di una grande impresa privata di ricorrere a un ammortizzatore sociale previsto dalla legge vigente. È anche probabile che la Cassa integrazione sia necessaria, visto che il mercato dell’auto a gennaio si è fermato (la gente non compra, perché aspetta gli incentivi) e che in queste condizioni la Fiat entro febbraio si gioca il suo intero portafoglio-ordini. Ma la vita delle persone che lavorano non può diventare uno “strumento” negoziale nella partita con il governo sulla rottamazione. E ancora: qui non è in discussione nemmeno il diritto di una grande impresa privata di rivedere la dislocazione dei suoi impianti, in funzione della loro efficienza e della loro produttività. Per intenderci: la Fiat ha ragione quando sostiene che a Termini Imerese conviene paradossalmente pagare i dipendenti senza produrre automobili. È una verità amara: in questi casi, davvero, il mercato è sovrano. Ma la Fiat ha torto se rifiuta a priori ogni ipotesi di vendita di quell’impianto, anche a un centesimo, o di investirci qualcosa in presenza di un eventuale progetto alternativo di riconversione industriale. La stessa cosa si può dire di Pomigliano d’Arco: la Fiat ha ragione quando denuncia l’antieconomicità e l’improduttività di quell’impianto, ma ha torto se rifiuta a priori la sfida di trasferire in quello stabilimento la produzione della Panda (oggi localizzata in Polonia) a condizione di ottenere un livello di flessibilità organizzativa pari a quella di Melfi (dove si produce la Punto). “Abbiamo imparato un sacco di cose nel 2009”, ha assicurato Marchionne dopo il cda dell’altro ieri. Ma quando liquida tutti i problemi dicendo “chiudiamo”, dall’altro capo dell’Oceano, dimostra che qualcosa deve ancora imparare.
La politica ha sbagliato la sua strategia. Non ha senso continuare a impostare il problema degli incentivi con la solita solfa dei millenari “favori alla Fiat”. Non perché i governi non gliene abbiano fatti: viceversa, soprattutto nella Prima Repubblica gliene hanno fatti fin troppi. Ma la rottamazione aiuta un intero mercato, non una singola azienda. Finanzia il consumatore, non il produttore. E in ogni caso quello che manca e che serve disperatamente a questo Paese è una politica industriale. In quali settori vogliamo che l’Italia sia forte e presente, nei prossimi vent’anni? Come possiamo alimentare e sostenere un adeguato volume di investimenti, pubblici e privati? Quali innovazioni legislative si richiedono, per la ricerca, la formazione e la contrattazione collettiva? Di tutto questo la politica non si occupa. Non è in grado di elaborare ricette. Su Termini Imerese il governo di Roma e la Regione Sicilia non propongono terapie da due anni. Nel frattempo, Palazzo Chigi si limita a dosare il “metadone” degli incentivi. La via più semplice, perché non richiede scelte politiche impegnative e oltre tutto serve a imbrigliare le aziende in una vecchia logica consociativa. Ma anche la via più fragile, perché quando le dosi finiscono il mercato non regge, e magari l’azienda si rifà sull’unico “fattore” produttivo che gli è più facile comprimere: il lavoro.
Ma c’è un elemento di fondo, che sfugge tanto alla Fiat quanto alla politica e che ora condiziona fortemente il rapporto che li contrappone. Quell’elemento si chiama globalizzazione. Abbiamo salutato tutti, com’era logico e giusto, lo “sbarco” della nostra casa automobilistica negli Stati Uniti. La trionfale “operazione Chrysler” ha segnato l’inizio di una nuova era, per il gruppo del Lingotto. Il successo di Marchionne in America ha avviato il passaggio da una dimensione “locale” a una proiezione globale. Ma oggi il processo è in pieno corso, e non è ancora compiuto. La Fiat non è più un campione nazionale, è già un’azienda trans-nazionale, ma non è ancora un gruppo multi-nazionale. Marchionne, ormai, passa più tempo a Detroit e nel mondo, di quanto non ne passi a Torino. Dal suo punto di vista, una fabbrica in Sicilia o in Campania vale tanto quanto una fabbrica in Wisconsin o in Missouri. Nel 2009 gli impianti brasiliani (750 mila vetture prodotte) hanno superato quelli italiani (722 mila vetture prodotte). Sul totale della produzione automobilistica, il valore aggiunto creato in Italia raggiunge i 7 miliardi, contro i 61 della Germania, i 19 della Francia e i 13 miliardi della Gran Bretagna. La stessa cosa vale per gli occupati, la cui quota italiana è infinitamente minore di quella degli altri mercati.
Per la prima volta, oggettivamente, l’Italia non è più il centro del mondo per la Fiat. Questo cambia radicalmente i livelli e i piani di interlocuzione politica, industriale e sindacale. Mentre Scajola e Sacconi sbraitano contro “il ricatto” e la Cgil e la Fiom gridano allo scandalo per la cassa integrazione, Marchionne neanche li sente. Da ieri è già nei suoi uffici nel Michigan, a occuparsi di Chrysler. Viene in mente, parafrasato, un film con Leonardo Di Caprio: prova a prenderlo. O, più banalmente, torna utile uno slogan che circola nella blog-sfera: “Marchionne, un canadese che vive in Svizzera, produce auto a Detroit, ama le fabbriche polacche e fa i grandi numeri in Brasile”. Altro che “italian job”: queste sono le public company del pianeta globale, bellezza. Ma se questa è la realtà, a Torino abbiamo un problema. John Elkann fa bene a ripetere che “il cuore e la testa” del gruppo restano lassù, al Lingotto. Ma i fatti dimostrano il contrario. E questo, se non è ancora un problema per la Fiat, presto può diventarlo per l’Italia.
La Repubblica 28.01.10
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Camusso: «L’azienda vuole drammatizzare la partita»
La sindacalista Cgil: «Il Lingotto sta scaricando sul Paese responsabilità proprie. Nuove azioni di lotta se necessarie». «La Fiat sta drammatizzando al massimo la situazione. Il 3 febbraio risponderemo con uno sciopero…poi potremmo decidere ulteriori iniziative di lotta». Susanna Camusso, segretario confederale della Cgil, è convinta che il Lingotto stia portando avanti un attacco premeditato: «Prima tagliando gli appalti a Termini Imerese e aprendo un problema occupazionale. Poi non affrontando la questione dei lavoratori di Pomigliano con contratto in scadenza. Infine annunciando due settimane di cassa integrazione alla vigilia di un incontro rilevante».
Una sorta di ricatto?
«Non voglio usare questo termine. Credo piuttosto che l’azienda voglia scaricare sulla collettività responsabilità proprie».
Non c’è magari un pressing per ottenere nuovi incentivi?
«Anche questa è un’operazione che scarica le responsabilità sul Paese e sui lavoratori in generale. Guardi il caso di Termini Imerese: Fiat appena due anni fa giudicava quello stabilimento tra i più produttivi della terra poi, improvvisamente, lo ritiene inutile senza che abbia fornito spiegazioni convincenti».
Anche perché non c’è mai stato un confronto a tutto campo sul piano industriale.
«Ed è, appunto, ciò che stavo dicendo. Quando abbiamo chiesto di discutere di produzione in Italia e di occupazione, l’unica risposta è stata ”io me ne vado, sono problemi dello Stato».
Come giudica il ruolo del governo?
«Credo che ci sia un problema che diventa sempre più evidente. Questo governo non una opinione sulle politiche industriali del Paese e su come affrontare le questioni. Apre delle discussioni, ma poi non riesce ad ottenere risultati».
Va bene, il governo è ondivago, ma il sindacato è unito in questa battaglia?
«Ci sono alcuni punti sui quali concordiamo e sono contenuti nelle parole d’ordine dello sciopero. Per esempio, la quantità della produzione che dovrebbe essere fatta in Italia. L’azienda ci deve dire cosa mette in questa operazione soprattutto quando chiede risorse pubbliche».
Dopo lo sciopero del 3?
«Vediamo il risultato dell’incontro da Scajola, poi decideremo iniziative successive. Le tappe si determinano sempre in ragione di quello che succede».
Il Messaggero 28.01.10