Sono settimane di intensa attività della diplomazia americana in Medio Oriente. Prima Hillary Clinton, poi Denis Ross e il generale Jones, in queste ore l’inviato speciale Mitchell, si sono susseguiti nella regione nello sforzo di convincere israeliani e palestinesi a riavviare i negoziati di pace. Nessuno ignora le difficoltà e le differenze di vedute che tuttora sussistono tra le parti. Gli israeliani dichiarano Gerusalemme unica e indivisibile capitale dello Stato di Israele e i palestinesi, invece, chiedono che sia capitale di due Stati. I palestinesi chiedono il blocco totale degli insediamenti di nuove colonie, mentre il governo di Israele ne ha disposto un congelamento parziale, che non include gli insediamenti già autorizzati, né il territorio di Gerusalemme. Alla richiesta dei palestinesi di riconoscere ai rifugiati il diritto al ritorno, Israele oppone di non poter accettare soluzioni che mettano in discussione l’equilibrio demografico e la ragione stessa dell’esistenza di Israele, nato per dare una patria al popolo ebraico. Israele chiede, per la sua sicurezza, di esercitare il controllo di confini e spazio aereo del futuro Stato palestinese, mentre Abu Mazen è disposto ad accettare che tale garanzia sia affidata ad una forza multinazionale di pace. E, infine, nessuno può ignorare la frattura che contrappone Hamas e Abu Mazen e la criticità della situazione di Gaza, dove le condizioni di vita sono sempre più drammatiche e si pone urgente la necessità di riaprire i valichi di accesso e consentire l’inoltro degli aiuti umanitari.
E tuttavia, l’unico modo per dirimere anche le questioni più delicate è dialogare, discutere e negoziare. L’esperienza di questi decenni ci dice che il tempo non lavora per la pace. Al contrario, nel tempo sono cresciute la frustrazione e la sfiducia e oggi è responsabilità di tutti riavviare i negoziati per giungere finalmente ad una pace stabile e sicura per entrambi i popoli.
Nonostante le tante difficoltà ci sono, infatti, anche segnali che consentono di tornare a credere nella pace. L’accettazione del Primo ministro Netanyahu della soluzione «Due Stati per due popoli» rimuove ogni ostacolo di principio alla nascita, accanto allo Stato di Israele, di uno Stato palestinese indipendente sulla base dei confini del ‘67, modificati con eventuali scambi concordati di territori che tengano conto dei cambiamenti di questi 40 anni. E la decisione del governo israeliano di sospendere nuovi insediamenti in Cisgiordania, anche se parziale e se non include Gerusalemme Est, costituisce un primo passo, a cui potrebbero seguirne altri.
Peraltro anche dalla Cisgiordania vengono segnali positivi, come la riduzione dei checkpoint e il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, la crescita economica, la presa di controllo del territorio da parte della polizia palestinese. Fatti che dimostrano la capacità del presidente Abu Mazen, del Primo Ministro Fayyad e dell’Anp di esercitare con efficacia e credibilità l’autorità di governo.
C’è poi la ripresa di un impegno forte della comunità internazionale. Non solo la determinazione di Obama – che dal discorso de Il Cairo in poi ha fatto della questione israelo-palestinese una priorità della sua agenda – ma anche la dichiarazione dell’8 dicembre dei ministri degli Esteri dell’Ue; il Piano arabo di pace e il ruolo attivo che stanno giocando Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Turchia; il ritorno sulla scena della Russia con la proposta di una nuova Conferenza internazionale a Mosca: sono altrettanti segnali della consapevolezza che il tempo di agire è adesso. Tanto più di fronte alla ripresa di iniziativa di Al Qaeda, che dimostra quanto le organizzazioni terroristiche siano determinate a far saltare la strategia di apertura di Obama al mondo islamico. Così come rimettere in moto il processo di pace è essenziale per contenere e contrastare le posizioni islamiche radicali che, guidate dall’Iran, fanno dell’irrisolto conflitto israelo-palestinese una bandiera per la loro azione destabilizzante.
Dunque decisivo è tornare a negoziare e al più presto. Certo, nulla è scontato e facile in Medio Oriente. Soprattutto dopo i troppi fallimenti di questi anni. E però – come mi ha detto un interlocutore nella visita che ho compiuto in questi giorni in Israele e a Ramallah incontrando i tanti protagonisti di quel conflitto – «il ponte è traballante, ma non ce n’è un altro per attraversare il fiume».
*Rapporteur sul Medio Oriente per il Consiglio d’Europa