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"Manovali, garzoni, operai ecco il lavoro senza qualità degli apprendisti-bambini", di Roberto Mania

Manovali e operai senza specializzazione. Garzoni di bottega. Sono i più giovani degli apprendisti, il 6,5 per cento del totale. Oltre 40 mila adolescenti che vivono in un´area pallida tra la scuola e il lavoro. Lavoratori deboli di conoscenza e di potere contrattuale. Sedici-diciassettenni candidati ad arrancare per sempre nel mercato del lavoro, tanto più che l´uscita dalla grande recessione non presterà alcuna cortesia nei loro confronti.
La proposta del governo di equiparare il primo anno di apprendistato, a 15 anni, all´ultimo della formazione dell´obbligo, non avrà effetti significativi su questa fascia di età, a meno che non riesca a rendere attivi quei 126 mila ragazzi tra i 14 e i 17 anni che hanno smesso di andare a scuola, e non hanno neanche un lavoro: giovani “né-né”, oppure “dispersi”. Più nelle regioni meridionali (il 7,7 per cento) e nelle isole (il 6,5 per cento), che nel nord-est (il 2,8 per cento).
Il governo pensa di ricorrere al lavoro per attenuare una parte dell´abbandono scolastico proprio nel paese che nella vecchia Europa detiene quasi il record del fenomeno: il 22 per cento contro una media continentale intorno al 15. Ma sono più i dubbi sull´efficacia di questa mossa che le adesioni. Neppure il sistema delle aziende è del tutto convinto – soprattutto in questo momento di profondità della crisi occupazionale – delle bontà della proposta emersa in Parlamento.
D´altra parte la fragilità dei giovani apprendisti sta nei fatti, nel loro angusto percorso di istruzione, ma anche, implicitamente, nei numeri dell´Isfol, l´istituto che per il ministero del Lavoro si occupa di formazione. Basta osservare il trend degli apprendisti per classi di età tra il 2002 e il 2008: quella tra i 15 e i 17 anni rappresentava il 13,1 per cento del totale, si è praticamente dimezzata fino al 6,5 per cento. Perché serve a poco fare l´apprendista-bambino. Mentre si sono ingrossati gli altri gruppi, ma soprattutto quello dell´ultima fascia dai 25 anni e oltre: è passato dal 10,2 per cento del 2002 al 22,4 per cento del 2008. D´altra parte nell´Italia della gerontocrazia si può essere apprendisti fino a oltre 35 anni. E poi, magari, precari per il successivo decennio.
Si dice che è nel nord-est, lì dove permane un tasso di disoccupazione a livelli di Europa settentrionale e dove le micro-imprese presidiano il territorio, che servirebbe abbassare l´età per l´ingresso al lavoro. Si renderebbe così legale un fenomeno che nei fatti sarebbe piuttosto diffuso. E si dice anche – in questo caso una recente indagine della Confartigianato lo dimostra numeri alla mano – che gli artigiani non trovino le professionalità di cui avrebbero necessità. Ma i dati dicono anche che c´è stata un´inversione di tendenza. Che anche i nordestini sono cambiati. Perché nell´ultimo decennio è aumentata sensibilmente (di ben il 13 per cento) la percentuale di chi si iscrive alla scuola secondaria. E ora quella percentuale è diventata pure un po´ più alta della media nazionale. Molto – va detto – è dipeso dagli immigrati, ma – si legge nell´ultimo Rapporto della “Fondazione Nord-Est”, coordinato dal sociologo Daniele Marini – così «cade anche l´ultimo pregiudizio nei confronti di quest´area, quello di essere popolata da gente che si preoccupa più del guadagno che dell´istruzione». E allora quella del governo non va nemmeno considerata una norma “pro nord-est”.
Il “focus”, comunque, deve essere sui quindici, sedicenni. Perché questa è la fascia di età che potrebbe essere toccata dalla proposta della maggioranza parlamentare, e sulla quale il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, è intenzionato ad andare fino in fondo. Sandra d´Agostino è una ricercatrice dell´Isfol che si dedica da anni proprio all´apprendistato. Sciorina gli ultimi dati disponibili: dei quasi 600 mila quindicenni, il 90,8 per cento va ancora a scuola, il 6,9 per cento segue corsi di formazione, lo 0,4 per cento risulta apprendista anche se non potrebbe essendo la soglia attuale fissata a 16 anni, infine l´1,9 per cento è disperso. Se si passa ai sedicenni si abbassa la percentuale di chi va a scuola (l´88,4 per cento), e si alzano le altre categorie: 7,6 per cento coloro che seguono un corso di formazione, 1,7 per cento apprendisti e 2,3 per cento che risulta non fare nulla. Con l´età cresce di fatto l´abbandono scolastico, ma non fa il pieno il contratto di apprendistato, che non appare la spina dorsale dell´occupazione giovanile. È una quota marginale quello tra i 15 e i 17 anni, poco più del 6 per cento, si è visto, del pianeta apprendisti cresciuto dell´87 per cento negli ultimi dieci anni: in tutto oltre 640 mila persone, con il 40 per cento circa concentrato nel centro-nord. E i contratti si fanno perlopiù nel commercio (il 22,3 per cento), a seguire, nell´edilizia (il 21,4 per cento), nell´industria metalmeccanica (il 17,5 per cento), per scendere via via al 10,7 degli studi professionali fino al 3,2 per cento del tessili. Ne fanno ricorso le aziende artigianali, quelle piccole con due o tre addetti. In ogni caso questi dati riguardano tutti gli apprendisti senza limiti di età, non solo gli under 18.
I giovani apprendisti, infatti, sono una parte (legale) del lavoro minorile. Ed è fortissimo il legame, nell´Italia dell´immobilità sociale, tra i bassi tassi di istruzione della famiglia di provenienza e l´adolescente giovane che varca il cancello del mercato del lavoro. L´ha scritto l´Istat nell´unica indagine dedicata al lavoro minorile (“Bambini, lavori e lavoretti” del 2002): chi ha il padre con la licenza elementare ha una probabilità tripla di andare a lavorare prima dei 15 anni di chi ha il papà “dottore”. Insomma: c´era una volta l´Agenda di Lisbona, quella dell´Europa (e anche dell´Italia) della conoscenza e dell´occupabilità.
La Repubblica 23.01.10

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“Assegno formativo per bloccare la fuga dai banchi “, di Maurizio Ferrera

In Europa solo Romania e Bulgaria sono messe peggio dell’Italia. Negli altri Paesi la dispersione formativa non è solo più contenuta, ma riguarda soprattutto i figli di immigrati. La norma che consentirà di accedere all’apprendistato già a 15 anni sta suscitando un’ondata di polemiche. Più che sulle grandi questioni di principio, sarebbe bene riflettere sul dato di partenza che ha motivato l’azione del governo: il numero altissimo di quindicenni e sedicenni che non studia più e non lavora ancora. Un esercito di 126 mila adolescenti che crescono senza bussola e sprecano anni preziosissimi per lo sviluppo di capacità e competenze. In Europa solo Romania e Bulgaria sono messe peggio dell’Italia. Negli altri Paesi la dispersione formativa non è solo più contenuta, ma riguarda soprattutto i figli di immigrati. Da noi invece si «disperdono» moltissimi giovani italiani, nati e vissuti in un contesto culturale e istituzionale in cui andare a scuola fino a sedici anni (come prevede la legge) dovrebbe essere un fatto normale, senza possibili alternative. La dispersione è più alta al Sud, ma anche nel ricco e avanzato Nord-Ovest un buon cinque percento dei giovani fra i quattordici e i diciassette anni sono già fuori dal sistema formativo.

L’apprendistato per i quindicenni può essere la soluzione del problema? Difficile crederlo. Anche a prescindere dalle argomentazioni pedagogiche, ciò che rende scettici è la scarsissima diffusione e l’alta disorganizzazione di questo istituto nel nostro Paese. Secondo l’ultimo Rapporto Isfol gli «apprendisti in formazione» minorenni sono poco più di seimila, tutti nel Centro-Nord. Anche a investire sul serio in questa direzione ci vorranno anni, ad essere ottimisti, prima che lo strumento possa funzionare in tutto il Paese.
Come insegna l’esperienza internazionale, per conseguire rapidi successi contro la dispersione occorre intervenire con incentivi tangibili per i giovani e le loro famiglie. Negli Usa molte amministrazioni locali subordinano l’accesso alle prestazioni assistenziali all’assolvimento dell’obbligo scolastico da parte dei minori: i dati segnalano infatti (anche per l’Italia) che gli abbandoni interessano soprattutto i figli delle famiglie disagiate. Un eccesso di paternalismo? No, se pensiamo che andare a scuola è, appunto, obbligatorio e chi non manda i figli a scuola viola la legge. In Italia il 40% circa dei minori (60% al Sud) vive in famiglie a basso reddito che fruiscono di agevolazioni o esenzioni «sociali» (tariffe, ticket, sussidi vari). Se fosse richiesta qualche forma di certificazione educativa fra i documenti da allegare alla cosiddetta dichiarazione Ise (quella che serve per accedere ai benefici) le famiglie avrebbero un bell’incentivo a mandare i figli a scuola (compresi, perché no, i percorsi di scuola e lavoro, diffusi anche in altri Paesi).

L’Inghilterra ha inaugurato un secondo tipo di intervento: gli assegni formativi. I giovani fra i sedici e i diciotto anni che provengono da famiglie disagiate possono ottenere una educational allowance per iscriversi a corsi di istruzione o formazione accreditati. L’assegno può raggiungere i 150 euro al mese per la durata del corso, purché la frequenza sia regolare e i voti siano sufficienti. Quando questo programma fu istituito, molti giovani non si fidavano e chiedevano ai funzionari: dove sta l’imbroglio? Ora sul sito del governo (http://ema.direct.gov.uk) c’è scritto esplicitamente: non c’è imbroglio, vogliamo solo aiutarvi a non sprecare il vostro capitale umano; se studiate oggi potrete guadagnare molto di più in futuro.

Introdurre lo schema inglese in Italia costerebbe alcune centinaia di milioni. Ma si potrebbe iniziare gradualmente e selettivamente (peraltro facendo tesoro di esperienze pilota già introdotte in alcune regioni). Sarebbe un passo concreto verso quel «welfare delle opportunità» di cui tanto si discute nei libri e nei convegni, ma che nessun governo ha ancora messo veramente al centro delle sue priorità in campo sociale.
Il Corriere della Sera 23.01.10