Il Senato ha approvato ieri il processo breve, l’ultima legge ad personam studiata per sottrarre Berlusconi ai suoi processi. Una vergogna che non merita neppure più discutere. Se il testo diventerà davvero legge, provocherà disastri nell’esercizio quotidiano della giustizia, e si potrà soltanto sperare che la Corte Costituzionale sia veloce nel rilevare la sua palese illegittimità.
In questo giorno poco fausto per le prospettive di giustizia, vale peraltro la pena di affrontare un tema, che, risolto malamente, rischierebbe di compromettere ancora di più il rispetto della legalità nel nostro Paese. È stato ancora una volta Berlusconi a porlo sul tappeto, quando all’attività giudiziaria svolta dai magistrati ha contrapposto, in termini di sfida, la forza che deriva ai politici dall’investitura ottenuta con il voto popolare.
Questo tema è stato affrontato qualche tempo fa da questo giornale in un bellissimo articolo di Barbara Spinelli. La conclusione dell’autrice è stata netta: anche l’eletto dal popolo è tenuto a rispettare la legge. Anzi, senza rispetto della legalità da parte di tutti, inclusi coloro che hanno ricevuto l’investitura a governare, non esiste democrazia. Con altre parole, si può affermare che il primato della politica sulla giurisdizione, in uno Stato di diritto, può essere accettato a condizione che non si traduca in un’ingiustificata impunità, dato che il voto dei cittadini non è un mandato in bianco all’esercizio del potere, ma impegna a governare nel rispetto delle regole.
In questa prospettiva, fra controllo di legalità e legittimazione popolare non dovrebbe esservi contrapposizione: chi è eletto governa, essendo stato legittimato dal popolo a farlo; se infrange la legge, deve essere tuttavia sanzionato come ogni altro cittadino. Eppure, rispetto a tale ragionevole soluzione c’è, oggi, chi si ribella: sostenendo che non è tollerabile che la magistratura, tramite le sue indagini e i suoi processi nei confronti dei politici, possa interferire senza limiti sulle gestioni pubbliche, rischiando d’inceppare l’attività di governo e di danneggiare, pertanto, gli interessi del Paese.
Il dibattito è stato enfatizzato a causa della peculiare posizione del Presidente del Consiglio che, incalzato dalle indagini penali, sta cercando da tempo di assicurarsi spazi personali d’impunità. Ora, tuttavia, non pare sia più, soltanto, problema personale del capo del governo: una parte consistente della classe politica, di maggioranza e d’opposizione, sembra propensa a ripristinare addirittura l’immunità parlamentare, travolta dalle temperie giudiziarie di Mani pulite. Una condizione, si dice, per restituire alla politica la forza perduta e per recuperarne l’indispensabile capacità di decidere.
Storicamente, l’immunità parlamentare aveva una sua giustificazione: s’intendeva proteggere il rappresentante del popolo dalle potenziali, temute, «persecuzioni» degli altri poteri e salvaguardare così la sua libertà di agire e di votare. Per questa ragione, e forse anche perché si voleva proteggere il potere legislativo da una magistratura cui si stava concedendo forte autonomia, l’immunità è stata mantenuta nella Costituzione. Peraltro, le Giunte per le autorizzazioni a procedere raramente hanno applicato l’istituto con il dovuto rigore, preoccupandosi cioè di tutelare soltanto i parlamentari vittime di persecuzione giudiziaria; hanno, piuttosto, cercato di salvare chiunque, eletto in parlamento, avesse commesso reati, dando in questo modo corpo, nei fatti, ad una situazione intollerabile di privilegio non giustificato.
Ecco perché, oggi, reintrodurre l’immunità suona alle orecchie di molta gente come ripristino di un odioso privilegio. Né le forme nuove d’immunità con le quali una parte della classe politica cerca di ammorbidire l’impatto del ventilato ripristino (si pensi al recente disegno di legge Chiaromonte/Compagna) sembrano in grado di dissipare perplessità e resistenze. Si tratta, comunque, della previsione di «coperture» che intaccano il principio fondamentale secondo il quale tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, si tratti di gente comune ovvero di potenti.
Ha ragione, per altro verso, chi rileva che, negli anni, la politica ha perso, ad una ad una, le sue tutele tradizionali e si presenta, oggi, in larga misura priva di adeguate salvaguardie di fronte alle azioni giudiziarie sbagliate o prevaricanti; e soggiunge che, parallelamente, la corporazione dei magistrati ha assunto poteri strabordanti. Il che costituisce un pericolo per la credibilità di entrambi i versanti istituzionali. Si tratta, tuttavia, di stabilire se il riequilibrio debba essere necessariamente realizzato reintroducendo odiose protezioni della classe politica o possa essere conseguito con altri mezzi, e a tutela di tutti i cittadini. Ad esempio, con un criterio diverso di selezione del personale giudiziario, con più adeguati meccanismi di controllo, con maggiore rigore disciplinare nei confronti dei magistrati che sbagliano o prevaricano.
Mi ha colpito che nei giorni scorsi un autorevole magistrato, il Procuratore della Repubblica di Venezia Vittorio Borraccetti, abbia sostenuto che, «vista la situazione», la reintroduzione dell’immunità parlamentare potrebbe essere strumento confacente, per consentire che vengano abbandonati i progetti più devastanti che, per salvare a tutti i costi il premier, rischiano di neutralizzare la stessa funzione giudiziaria. Si tratta, evidentemente, della disperazione di chi, di fronte all’apparente ineluttabilità delle cose, cerca di salvare in qualche modo il salvabile. Confido ancora, nonostante tutto, che si riesca ad uscire altrimenti dal difficile groviglio di temi e problemi.
La Stampa 21.01.10