Stigmatizzare come ammissione di maldestro spot elettorale la clamorosa retromarcia di Berlusconi sulla faccenda delle “due aliquote”non deve lasciare in ombra un fatto inquietante. A corto di idee, infatti, il premier ha rilanciato una proposta di matrice reaganiana e bushana, vecchia di oltre quindici anni, che tuttavia la dice lunga sul perdurante nucleo culturalmente neoliberista che anima il suo pensiero e la sua politica come un riflesso condizionato e a dispetto di tutto il recente ciarlare del ministro Tremonti circa una“economia sociale di mercato”. Nucleo neoliberista tanto più paradossale oggi che la crisi economico- finanziaria globale induce dubbi e ripensamenti persino nei più coriacei seguaci della scuola anti-Stato e pro-mercato di Chicago. Il sistema fiscale italiano va certamente riformato nella direzione di abbassare la pressione sui redditi medi e bassi, su lavoratori dipendenti e pensionati. Come del resto aveva iniziato a fare il governo Prodi della precedente legislatura, per esempio istituendo una “dote fiscale” per i figli (attraverso la somma di incremento delle detrazioni e trasferimenti monetari diretti per gli incapienti) e dando vita a una vera lotta all’evasione fiscale (con misure quali la tracciabilità e l’elenco clienti-fornitori, nona caso tra le prime soppresse dal governo Berlusconi all’atto del suo insediamento). Ma perseguire il progetto di un’Irpef a due sole aliquote – 23% per i redditi fino a 100.000 euro, 33% al di sopra – porta a due esiti entrambi estremamente negativi, in grande misura propri anche dell’ipotesi di “quoziente fiscale”. Il primo è una drammatica alterazione della distribuzione del reddito, già tanto disegualitaria e squilibrata, a ulteriore favore dei ricchi: basti segnalare che, con le due aliquote, un contribuente con un reddito annuo di 30.000 euro risparmierebbe 600 euro di fisco, un contribuente con un reddito di 100.000 euro ne risparmierebbe 13.000. Il secondo esito negativo è una perdita di gettito (da 30 miliardi di euro in sù all’anno: come dire la dimensione di due, tre finanziarie) di tale entità da restituire attualità al motto di Reagan e di Bush: «starving the beast», affamare la bestia governativa, sottraendogli le risorse necessarie a finanziare servizi pubblici e prestazioni sociali. Il tutto nella più classica logica ostile all’esercizio della responsabilità collettiva incarnata dalle istituzioni pubbliche: “meno tasse, meno regole, meno Stato, più mercato”. Come se la crisi in cui a tutt’oggi siamo profondamente immersi, e le cui conseguenze occupazionali sono ancora lontane dall’essersi compiutamente dispiegate, non avesse già decretato il fallimento delle ricette neoliberi
L’Unità 15.01.10
Pubblicato il 15 Gennaio 2010