L´Istituto Gandhi in via Pistoiese ha una media di stranieri del 40%: “Ci salva il Comune con i suoi mediatori culturali” “La circolare Gelmini prevede la commissione accoglienza: noi l´abbiamo da tre anni ma non ci sono fondi, le insegnanti non sono ancora state pagate”. Ci sono ragazzi appena arrivati dalla Cina che non capiscono una parola e muovono solo gli occhi. Poi spunta un ‘ciao prof´ e il muro piano piano si rompe. Da questa cattedra con le finestre su una traversa di via Pistoiese, dentro una classe multietnica, il tetto del 30% ha le facce di Hu quarto banco a destra, Chang primo a sinistra, Amina, Joseph e altri. Gli eventuali stranieri in esubero per il ministero sono questi ragazzini dall´italiano incerto che hanno alle spalle fresche storie di migrazioni, vite che crescono coi gomiti dentro i laboratori di Chinatown. Sono loro che andrebbero traghettati con gli scuola-bus su altri istituti meno segnati dalla geografia dei flussi migratori. «Ho letto la circolare del ministro Gelmini e mi sembra si sia fatto tanto rumore per nulla – frena Carlo Testi, preside dell´istituto comprensivo Gandhi -. C´è molta ideologia e nessuna novità. Se si considera come straniero chi non è nato in Italia, chi non sa per niente la lingua e le altre deroghe previste dalla circolare, potremo superare la soglia del 30% in casi davvero sporadici». La Gandhi è immersa nell´area a più forte immigrazione della città, qui le medie matematiche parlano del 38-40% di alunni con genitori non italiani: la maggior parte cinesi, il 5% rom e poi albanesi, romeni, marocchini. «Dagli accordi che abbiamo già a livello locale, se vediamo che ci sono classi nelle medie con molti alunni che non sanno una parola di italiano cerchiamo di trasferirli su altri istituti della zona: alla Manzoni Baracca o alla La Pira per l´elementare. Ma bisogna sempre tener presente che più cresce la distanza fra scuola e casa e più aumentano i giorni di assenza da parte dell´alunno».
Alla Gandhi il 10% delle famiglie (dalle materne alle medie inferiori) è seguita dagli assistenti sociali. Insegnare qui è come sperimentare una didattica da laboratorio, accettare la sfida sapendo che sarà tutta in salita. «Se non ci fosse l´impegno del Comune che ci mette a disposizione i mediatori culturali e gli insegnanti per fare ore in più ai ragazzi che arrivano ad anno scolastico iniziato dalla Cina o per quelli che pur vivendo qui non conoscono la lingua, non sapremmo come fare» confessa Testi. La buona volontà non basta, bisogna macinare ore di lezione e chiede aiuto ai traduttori. «Prima almeno avevamo un insegnante in più che si occupava proprio di questi alunni e faceva lezioni specifiche. Oggi quella figura è stata tagliata – racconta il preside – La circolare Gelmini prevede la commissione accoglienza, noi ce l´abbiamo da tre anni. Il vero nodo è sui fondi: non c´è modo di fare programmazione perché io non so nemmeno quanto mi daranno quest´anno e i 25mila euro che dovevano arrivare due anni fa li stiamo ancora aspettando. Le insegnanti hanno svolto tutte le lezioni e per ora non sono state pagate per quel progetto. La novità è forse questa?» chiude ironico il preside.
Nel diario di bordo di Anelia Cassai, tre anni di navigazione ad insegnare italiano fra questi banchi, ogni pagina è il racconto di cosa sia l´integrazione: «A volte mi preoccupo nel vedere certi ragazzi appena arrivati dalla Cina che non sanno una parola della nostra lingua, si guardano persi intorno, stanno cinque ore seduti ai banchi e muovono quasi solo gli occhi. Poi comincia un “ciao”, un “professoressa” e il muro piano piano si rompe. Spesso cominciamo facendo scrivere temi in cinese o nelle altre lingue d´origine, poi li facciamo tradurre e li leggiamo in classe in modo che tutti capiscano chi è il nuovo compagno o la nuova compagna che sta zitta, viene da paesi lontani, non sa l´italiano, ma conosce altre cose che possono arricchire tutti. Me compresa».
La Repubblica Firenze 13.01.10
Pubblicato il 13 Gennaio 2010