La rivolta di Rosarno è scoppiata nelle stesse ore in cui il ministro dell’Interno, a distanza di pochi chilometri, discuteva con i responsabili dell’ordine pubblico in Calabria la risposta dello Stato alla bomba esplosa contro la procura. Una coincidenza casuale ma davvero simbolica che nella saldatura tra l’emergenza cronica chiamata mafia (‘ndrangheta, camorra, ecc.) e la nuova emergenza che si chiama immigrazione ci consegna all’inizio di questo 2010 un’agenda sociale drammatica.
Quello che sta accadendo a Rosarno in queste ore ci riguarda tutti: il nostro quartiere, le nostre periferie, a Sud e a Nord, interroga la nostra coscienza di cittadini, sfida l’intelligenza e mette alla prova quello che si chiamava il sentimento democratico.
Non è un problema solo italiano. Una rivolta del tutto analoga a quella di Rosarno è scoppiata qualche mese fa a Calais, nel Nord della Francia, da dove le bianche scogliere di Dover appaiono come un miraggio alle migliaia di migranti (soprattutto afghani, pakistani, iracheni) che premono per sbarcare in Gran Bretagna. Gli ammiratori acritici di quanto avviene al di là delle frontiere vadano al cinema a vedere «Welcome» di Philippe Lioret: avranno di che meditare su come la questione rappresenti un rompicapo per ogni governo, compreso quello del muscolare Sarkozy che ha trasformato in reati anche i piccoli gesti di solidarietà verso i clandestini senza aver disinnescato le polveriere sociali disseminate nelle banlieues francesi.
È anche per questo che appare particolarmente irritante la litania tutta italiana del rinfaccio di responsabilità tra destra e sinistra, governo e non governo perché le responsabilità vanno equamente distribuite nel corso degli anni. Altra cosa è il confronto su quanto sta accadendo a Rosarno: accusare di clandestinità dei poveracci che accettano condizioni di vita disumane per svolgere lavori che gli italiani non vogliono più fare non ci sembra la strada migliore. A Rosarno (un comune da anni senza amministrazione sciolta per mafia) va in scena la duplice sconfitta della classe dirigente italiana: un Sud abbandonato alla propria incapacità di uscire dal medioevo della ’ndrangheta, l’afflusso incontrollato di masse migranti.
Il paradosso, inaccettabile, è che tutto ciò è noto ma tollerato per il sistema, quel sistema che in Calabria (ma anche in Sicilia, Puglia, Campania e nei frutteti del Nord) si regge su una manodopera invisibile e clandestina. Bisogna compiere un viaggio tra paesaggi improbabili e allucinati che avrebbero fatto da sfondo ideale al film tratto da «La strada» di Cormac McCarthy (che pare non vedremo mai in Italia perché troppo desolato e deprimente) per scovare l’accampamento dei «ribelli» di Rosarno: un vecchio stabilimento industriale abbandonato, dove senza nessun servizio e in condizioni igieniche inimmaginabili vivono stagionalmente, da anni, centinaia di persone. Quante Rosarno ci sono in Italia? Quanti cittadini italiani, nella maggioranza deboli ed essi stessi «abbandonati», come quelli che in Calabria in queste ore si confrontano e si scontrano con i migranti in una disperata guerra tra poveri?
Per il governo, a distanza di pochi giorni, si apre una seconda, urgente sfida calabrese: rendere dignitose le condizioni di vita di centinaia di lavoratori stranieri, permettere loro di lavorare nella legalità, perseguire le mafie grandi o piccole che li sfruttano, non consentire che in nessun’altra Rosarno sparsa in Italia si aggreghino masse di clandestini inevitabilmente destinate a urtarsi con le popolazioni locali.
Misure urgenti e difficili a cui bisogna affiancare prima possibile la regolazione di un percorso italiano alla cittadinanza per gli immigrati. Giovanna Zincone il 2 gennaio scorso ha illustrato su la Stampa quanto sia problematica la composizione delle varie proposte nel dibattito che si sta facendo in Parlamento. È essenziale dare certezze di legge a una materia così incandescente. Ed è importante che non siano le emozioni e le facili demagogie del momento a prevalere sulla ragione o anche su un banale calcolo utilitaristico: degli immigrati il sistema italiano non può fare a meno. Dare sicurezze a loro significa dare sicurezze agli italiani ed evitare altre Rosarno.
La Stampa 09.01.10
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Chi usa gli ultimi della terra?, di Gad Lerner
Di quale tolleranza, “troppa tolleranza”, parla il ministro Maroni? Ignora forse che da trent´anni l´agricoltura del Mezzogiorno d´Italia si regge economicamente sull´impiego di manodopera maschile immigrata, sospinta al nomadismo stagionale fra Puglia, Campania, Sicilia e Calabria, con paghe di sussistenza alla giornata, ricoveri di fortuna in edifici fatiscenti, criteri d´assunzione malavitosi, senza la minima tutela sanitaria e sindacale? Ora non li vogliono più, s´illudono di espellerli come un corpo estraneo dopo che li avevano convocati alla raccolta degli agrumi. Ma è dal 1980 che le colture specializzate meridionali non possono fare a meno delle migliaia di ragazzi africani trattati né più né meno come bestiame. E al tramonto, se la mandria non fa ritorno disciplinato nei recinti abusivi delle aree industriali dismesse, non trova certo istituzioni disponibili a riconoscerne l´umanità. Gli italiani con cui entrano in contatto questi lavoratori senza diritti sono solo di due tipi: i caporali spesso affiliati alla criminalità organizzata; e i volontari di Libera, della Caritas e di Medici senza frontiere. Le forze dell´ordine si sono limitate finora a un blando presidio territoriale per evitare frizioni pericolose con la popolazione locale. Ma l´importante era che il ciclo produttivo non si interrompesse: la mattina dopo il reclutamento ai bordi della strada non subiva intralci.
Chi ha tollerato che cosa, ministro Maroni?
Rosarno era teatro da anni di una conflittualità quotidiana, pestaggi isolati, sfide tra giovanissimi divisi dal colore della pelle ma accomunati da una miseria culturale che li induce a viversi come nemici. Dopo i colpi di fucile che hanno ferito due immigrati, giovedì la furia degli immigrati ha colpito indiscriminatamente la popolazione calabrese. Ieri, per rappresaglia, è scattata la “caccia al nero”: disordini razziali che evocano scenari di un´America d´altri tempi. Di nuovo sparatorie a casaccio per terrorizzare i miserabili che hanno osato ribellarsi, insanguinando la Piana di Gioia Tauro dove governano ben altre autorità che non lo Stato democratico.
La riconversione legale dell´agricoltura del Sud implicherebbe, accanto agli investimenti economici, un´opera di civilizzazione che mal si concilia con l´offensiva propagandistica imperniata sulla criminalizzazione del clandestino. Non solo i mass media ma anche i portavoce della destra governativa hanno eccitato, legittimato sentimenti d´ostilità da cui oggi scaturiscono comportamenti barbari, indegni di un paese civile.
Se a Castelvolturno, nel settembre 2008, fu la camorra a sterminare sei braccianti africani, a Rosarno assistiamo a un degrado ulteriore: settori di cittadinanza coinvolti in un´azione di repulisti inconsulta. La chiamata alle armi contro i dannati della terra che certo non potevano garantire – con la sola forza disciplinata delle loro braccia – il benessere di un´area rimasta povera.
Vi sono probabilmente motivazioni sotterranee, indicibili, alla base di questo conflitto. Non tutti i 25 euro di paga giornaliera finiscono nelle tasche dei braccianti illegali. Pare che debbano versare due euro e mezzo agli autisti dei pulmini che li trasportano nelle piantagioni. Si vocifera addirittura di una odiosa “tassa di soggiorno” di 5 euro pretesa dalla ´ndrangheta. Di certo non sono associazioni legali quelle che pattuiscono le prestazioni di lavoro. Ma soprattutto è chiaro che una relazione trasparente con la manodopera immigrata viene ostacolata, resa pressoché impossibile dalla legislazione vigente.
Altro che pericolo islamico: qui la religione non c´entra un bel nulla. L´Italia dell´economia illegale, non solo al Sud, lucra sulla farraginosità normativa che sottomette il lavoratore immigrato a procedure arbitrarie sia in materia contrattuale, sia nel rilascio del permesso di soggiorno. Quando Angelo Panebianco, sul “Corriere della Sera”, asserisce che affrontare il tema della cittadinanza significherebbe “partire dalla coda anziché dalla testa”, ignora che restiamo l´unico paese europeo in cui le procedure di regolarizzazione e di naturalizzazione non contemplano alcuna certezza di tempi e requisiti. Assecondando, di fatto, un´informalità di relazioni per cui ai doveri non corrispondono mai i diritti.
Sulla scia di un´analoga iniziativa francese, circola fra gli stranieri residenti in Italia l´idea di dare vita a marzo a una iniziativa forse velleitaria ma dal forte significato simbolico: “24h senza di noi”. Che cosa succederebbe se per un giorno tutti gli immigrati si astenessero dal lavoro? Quanto reggerebbe il nostro sistema di vita senza il loro apporto? Farebbero bene, i sindacati, a prendere in seria considerazione questa iniziativa, contribuendo con la loro forza organizzativa al moto spontaneo. Ma prima ancora è l´intero arco delle forze politiche, culturali e religiose che rifiutano la contrapposizione incivile fra italiani e stranieri a doversi mobilitare: l´inciviltà dei pogrom è contagiosa.
La Repubblica 09.01.10
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“Il grande alibi dell’integrazione”, di Francesco Merlo
Dopo lo sparo di Rosarno, la sparata della Gelmini. Le vittime sono sempre le stesse: gli immigrati. In Calabria i fucili dei balordi e a scuola i tuoni e i fulmini della Gelmini. Stabilendo che in ogni classe gli stranieri non debbono superare il trenta per cento, la ministra dell´Istruzione vuole preservare l´identità italiana degradandola ai confini di una Italietta che non esiste, di una Brianza gonfiata come la rana.
L´idea di fondo è che gli immigrati sono troppi e che dunque bisogna eliminarne una parte e ovviamente per il loro bene, «per integrarli meglio»: «per integrarti meglio, figlia mia» dice la nonna lupo.
Dunque, per integrarli meglio cacciamoli dalla campagne calabresi dove questi braccianti assicurano ricchezza a basso costo. E per meglio insegnare loro a stare al mondo, allontaniamo gli eccedenti dalle scuole nonostante assicurano occasioni di confronto, di stimoli, di curiosità verso gli altri, e anche di orgoglio nazionale visto che è da noi italiani che sono stati sedotti ed è la lingua italiana che hanno scelto come destino. I professori raccontano di bimbi che imparano a fare gli origami con i tovaglioli e a usare gli ideogrammi dai loro compagni cinesi, e di piccoli maghrebini che insegnano il francese ai milanesi, e ancora di giamaicani che conversano in inglese con i romani.
È vero che la presenza di immigrati di varie nazionalità può rallentare lo svolgimento dei più tradizionali programmi ed è vero che una scuola dove ci sono livelli diversi e lontani tende a modularsi sul livello più basso. Ma è un problema che riguarda la didattica e gli insegnanti che, in tutto il mondo, vengono appunto riqualificati e adattati alla crescita delle presenze straniere. Al contrario in Italia sono umiliati e addirittura orientati verso il modello regionale, con l´idea che i professori debbano superare l´esame di dialetto e con l´obiettivo di avere una scuola “parteno siculo borbonica”, un´altra “brianzola austriacante”, e un´altra ancora “papalina tiberina”.
Come si vede è l´insieme che spiega i singoli atti della Gelmini. È la sua politica generale sulla scuola che illumina anche quest´ultimo annunzio sulle quote del trenta per cento di stranieri. Eppure anche i nostri bambini, prima di andare a scuola, non parlano l´italiano e sono stranieri, specie se vengono da zone degradate, dalle periferie a forte connotazione regionale. A scuola si entra tutti stranieri e si esce tutti italiani, ma solo se si esce cittadini del mondo.
La Gelmini vuole invece che gli stranieri rimangano stranieri. E cosa ne farà degli eccedenti? Ci sono quartieri e interi paesi in Veneto e in Lombardia, ma c´è anche l´Esquilino a Roma per esempio, dove gli extracomunitari sono ormai la larga maggioranza. Solo la scuola può integrarli, soprattutto se si continua a negare loro la nazionalità e i diritti civili. Dove possono imparare a diventare italiani se non a scuola?
Dispiace dirlo, ma questo è lo stesso spasmo mentale dei fascio-futuristi che contro l´incremento demografico proponevano la guerra come igiene del mondo. Così la Gelmini propone le quote di sbarramento del trenta per cento come igiene del mondo della scuola.
Tutti sanno che è fatta di scuola l´Unità d´Italia che andiamo a celebrare. Da Bolzano a Cefalù è di nuovo la scuola che deve unire italiani e immigrati, la scuola che già è stata usata contro il regionalismo in chiave religiosa e antropologica, e contro le vecchie lingue strutturate, contro i dialetti. Le nostre scuole non avevano quote di sbarramento per i meridionali che al contrario cercavano. Li seducevano e li obbligavano proprio perché erano scuole sorte sul tramonto delle culture premoderne e localistiche, contro il delitto d´onore, contro la mafia Robin Hood, tutte cose che allora erano vere e resistenti come oggi sono vere e resistenti le tradizioni dei nuovi immigrati. Ebbene, se l´Italia l´abbiamo fatta a scuola è ancora a scuola che rifaremo o disfaremo l´Italia. È la scuola che deve rivedere l´identità nazionale, adattare la storia, la geografia, la lingua e la religione nell´epoca delle grandi migrazioni, del meticciato, della contaminazione. Unità d´Italia significa aprire e non chiudere la scuola alle lingue degli immigrati, alle loro culture e alle loro religioni. Solo la scuola può dirozzarci tutti, anche i ministri che sbagliano gli accenti in Senato.
E tanto per non contrapporre alla scuola della Gelmini i soliti modelli di Francia e di Inghilterra, che per i brianzoli sono mondi ormai perduti perché in mano agli apolidi di mille colori, ricorriamo alla Svizzera, che è un luogo caro ai leghisti perché la Svizzera sono le banche, i soldi, le fughe di capitali, l´intolleranza calvinista, le valli alpine senza minareti e palme mediterranee… Ebbene, la scuola svizzera è diventata l´eccellenza europea proprio perché vuole gli stranieri, perché li esibisce come un onore e come un vanto, perché immagina un futuro internazionale per ogni ragazzo che forma. Il famoso collegio Le Rosey che probabilmente è la scuola più prestigiosa, la meglio frequentata (e la più cara) del mondo ha addirittura fissato, – apra bene le orecchie, ministro Gelmini! – una quota insuperabile del dieci per cento, ma è una quota al contrario della sua. Gli svizzeri non vogliono una nazionalità che superi il dieci per cento del totale, non permettono che ci sia una nazionalità di maggioranza, vietano la formazione di una cultura dominante, sanno che l´identità della scuola svizzera si difende contenendo anche la componente svizzera dentro il dieci per cento. Perché la scuola insegna a stare al mondo, e non si può neppure immaginare una Parigi che fissi quote di sbarramento scolare ai suoi algerini e ai suoi vietnamiti… Solo la Gelmini in Europa immagina un mondo senza mondo, un mondo im-mondo.
La Repubblica 09.01.10
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“Il nuovo schiavismo che ha cambiato il mondo del lavoro nel Sud d’Italia” , edi Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore
I duemila di Rosarno non sono marziani spuntati dal nulla ma la punta dell’iceberg del sottoproletariato rurale: norme e dignità cancellate, razzismo, involuzione delle aziende. I braccianti africani che sono esplosi di rabbia contro l’ennesima aggressione subita sono i figli del nuovo schiavismo che si è diffuso come una “malapianta” nelle regioni meridionali. Costretti a lavorare per pochi euro,sotto il sole cocente d’estate e sotto il freddo pungente d’inverno, i duemila di Rosarno non sono marziani sbucati all’improvviso, sono solo la punta dell’iceberg del nuovo mondo bracciantile dell’Italia meridionale. Un mondo bracciantile che, quando il lavoro si fa più duro, oltrepassando il sottosalario e raggiungendo forme paraschiavistiche che si fondano sul controllo dell’uomo sull’uomo, vede scomparire dal suo interno gli italiani. n genere la violenza rurale si scaglia contro i braccianti senza che nessuno dica niente o alzi un dito. A Rosarno, oltre vent’anni dopo le manifestazioni seguite all’uccisione di un altro bracciante,Jerry Masslo, per la prima volta «i dannati della terra» si sono ribellati in forme dure. La loro rivolta ci dice un paio di cose. Innanzitutto che il grave sfruttamento lavorativo di migliaia di africani ed est-europei nelle nostre campagne ha prodotto un crescente imbarbarimento delle relazioni di lavoro e dei rapporti tra italiani e stranieri, un’involuzione delle stesse imprese che dovrebbero produrre in modi radicalmente diversi. Il neoschiavismo ha alimentato un razzismo crescente: è come se si fosse inverato il teorema secondo cui «se sei un lavoratore schiavizzato,prima o poi smetterò di considerarti come un uomo». E se ti ribelli,ti darò la caccia…In secondo luogo, la rivolta ci dice che abbiamo oltrepassato il punto di rottura. Maroni ha detto che«è stata tollerata una immigrazione clandestina che ha alimentato da una parte la criminalità e dall’altra ha generato situazioni di forte degrado».È accaduto esattamente il contrario: gli immigrati irregolari(o i regolari con la paura di tornare a essere irregolari nel momento in cui non viene loro rinnovato il contratto di lavoro) sono diventati soggetti oltremodo vulnerabili di fronte allo sfruttamento. Se denunciano il proprio caporale, sono loro a finire in un Cie, non il loro aguzzino. Di fronte a questo paradosso che si riproduce identico nella vita di migliaia di uomini e donne,bisogna ritornare a parlare di regolarizzazione dei lavoratori“clandestini”, che in alcuni settori – come appunto l’agricoltura al Sud – costituiscono la base della forza lavoro. Per una singolare coincidenza, la rivolta di Rosarno è esplosa negli stessi giorni in cui si discute della necessità o meno di uno sciopero degli stranieri. Se i nuovi braccianti non troveranno altri canali efficaci per far sentire la loro voce, queste situazioni si riprodurranno a catena.
L’Unità 00.01.10
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“Anche la sparatoria è un avvertimento”, di Massimo Numa
Don Luigi Ciotti e la «guerra» di Rosarno. «Libera», l’associazione nata per combattere le mafie, ha un ruolo importante, in questo pezzo di Calabria dominato (in larga parte) dalle famiglie dell’ndrangheta. «I miei ragazzi sono lì, queste persone vanno difese…».
Che fare, adesso?
«Posso dire che a Rosarno è sempre stata attiva una diffusa rete di solidarietà tra la popolazione locale e gli immigrati, le comunità cristiane e non solo. C’è una cultura molto radicata tra la gente, quella di offrire aiuto, in modo concreto…il cibo, i vestiti, il sostegno di ogni giorno. Ma ogni dettaglio dell’accoglienza, la gestione del circuito perverso delle “assunzioni”, dei rifugi in cui queste persone in cerca di lavoro sono costrette a vivere è da sempre nelle mani della mafia. Il clima di violenza, la ribellione che ne è seguita, nascono da qui».
Anche le reazioni degli immigrati sono state violente.
«Dobbiamo dirlo nel modo più chiaro possibile, la violenza va sempre respinta, anche se chi la pratica, come in questa occasione, ha mille buone ragioni. Sì, hanno avuto una reazione esagerata ma ora bisogna tentare di capire. Le mafia che controlla il territorio sfrutta nel modo più crudele possibile gli immigrati. E lo fa con cinismo e con una spietata determinazione. E con il ricatto. Mi sembra che le istituzioni si stiano muovendo in modo corretto, offrendo anche garanzie e una prima forma di tutela. E’ la direzione giusta, la repressione, da sola, non serve».
Maroni ha individuato nella clandestinità dei caporali della mafia per tenere sotto controllo i lavoratori-schiavi. E’ d’accordo?
«Sì, perchè le menti criminali che gestiscono ogni minimo aspetto dello sfruttamento, sanno che gli stranieri irregolari non possono neanche tentare di ribellarsi. Sono senza documenti, senza nessuna tutela da parte dello Stato, la loro unica possibilità è quella di subire, e di lavorare, per paghe misere. Trattati peggio delle bestie, provocati sistematicamente, privi di dignità e di ogni elementare diritto. E’ quasi inevitabile che situazioni di questo genere, alla fine, generino la violenza. Lo scontro in atto con la popolazione locale, con cui da anni s’era stabilito un buon rapporto, è solo la causa diretta del modo di gestire il lavoro da parte delle organizzazioni criminali».
Come intervenire?
«C’è una sola linea. Quella di liberare il territorio dalla criminalità organizzata, sradicare le attività gestite dagli esponenti delle famiglie dell’ndrangheta. Per farlo, è necessaria un’azione concorde di tutte le istituzioni dello Stato, non solo di segmenti isolati della società civile. Non è una guerra, questa, che si combatte una tantum, sull’onda emotiva di un fatto spiacevole o sanguinoso. L’eco della rivolta di Rosarno presto si spegnerà. Ecco. L’azione di contrasto deve proseguire senza arrestarsi, sino a quando non saranno spazzati via i caporali e chi li comanda».
I lavoratori stranieri, ultimo anello della catena. Come difenderli?
«Il racket, con loro, può esercitare il massimo livello di violenza e intimidazione. Anche la sparatoria che ha innescato la rivolta va considerata come un messaggio preciso, per intimidire chi non vuole rassegnarsi, chi tenta di ribellarsi ai soprusi. I lavoratori si spostano da un territorio all’altro, seguendo i cicli delle stagioni e delle raccolte. E per questo sono ancora più indifesi, veramente gli ultimi. Accettano ogni tipo di condizione, anche la più iniqua, pur di sopravvivere. Potranno liberarsi dalla mafia solo attraverso la bonifica di questi vasti territori. Distruggere il male alle radici. Togliere una volta per tutte alle cosche il controllo delle attività economiche. Altro non c’è».
La Stampa 09.01.10
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“Nessuna sorpresa Qui il mix è esplosivo”
Alle nove di sera Jean-Leonard Touadì sta tornando a Roma, dopo una lunga giornata proprio a Rosarno. E’ il parlamentare eletto nel Pd, immigrato francofono: la sua è una storia con un sereno finale, nel nostro Paese. Racconta quello che ha visto, anzitutto: «Una cittadina che conosco bene, che porta i segni della rivolta, falò, macchine in fiamme, cose danneggiate. Uomini e donne danneggiati. Una città sotto choc. E i ragazzi immigrati, soprattutto, che hanno paura. In molti, mi hanno chiesto di portarli via da lì. Si è rotto qualcosa nel rapporto con gli altri cittadini».
Perché quella è una zona nella quale ogni anno, da anni, arrivano gli stagionali per la raccolta dei pomodori, degli agrumi. E’ la prima volta che succede quello che ha visto oggi?
«Sì. Me lo ha confermato anche il sacerdote dell’associazione “Libera” che mi ha accompagnato, a Rosarno e in genere nel Sud ci sono frizioni, ma mai vera intolleranza e razzismo. Adesso ci sono due vittime, i ragazzi immigrati e la città. E’ il punto di caduta della miscela di illegalità diffusa, di sfruttamento del lavoro nero e della mancanza del controllo del territorio da parte dello Stato. E non è la prima volta che accade, quante Rosarno ha l’Italia? Ci siamo già dimenticati di Castelvolturno? C’è una imprenditoria nostra, italiana, che ha bisogno della mano d’opera degli immigrati. Dobbiamo esserne consapevoli».
Che cosa farebbe lei, se potesse?
«Anzitutto non basta la sanatoria solo per le badanti: l’impresa ha bisogno delle sue colf, la regolarizzazione va estesa alla manodopera stagionale dei migranti. E dobbiamo prendere coscienza che vengono pagati 25 euro al giorno: in quei 25 euro, 3 vanno per il pasto, poi vanno pagati trasporti e intermediari. A loro restano 10 euro. Vanno aiutati, o il Sud d’Italia nel 2010 diventerà quello che è Rosarno oggi, l’Alabama degli anni Venti dello scorso secolo».
Eppure, il ministro dell’Interno ha detto che «con i clandestini si è troppo buoni».
«Lo dico da cittadino, non da politico: quella di Maroni è un atteggiamento irresponsabile. Maroni era stato da poco a Reggio Calabria, è il ministro dell’Interno, sa che a Rosarno lo Stato è totalmente assente. Io lì ho trovato agenti di polizia, e il prefetto, di incredibile professionalità. Ma sono, anche loro, soli contro una guerra tra vittime italiane senza legalità, e nuovi schiavi dell’immigrazione clandestina. A Rosarno c’è un intreccio perverso che riguarda lavoro nero, malavita organizza e immigrazione. Questo dovrebbe preoccupare il Ministro degli Interni, non tanto la tolleranza verso la presenza di clandestini. Il sud ha dato prova di grande solidarietà verso gli immigrati ma le collettività non possono essere caricate di tutti i problemi».
Però ieri hanno anche deciso di inviare subito una task force…
«È importante che in questa fase le istituzioni svolgano il ruolo di mediazione, evitando di fomentare l’odio tra le parti. La task force del Viminale va bene ma non basta: ricordiamoci che la mediazione che le istituzioni devono mettere in atto da oggi in poi è prima di tutto culturale e sociale».
La Stampa 09.01.10
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