“Mitragliatori a fuoco incrociato contro cinquecento operai inermi”. Sono le parole drammatiche e angosciate con cui il 10 gennaio di sessant’anni fa Gianni Rodari – grande poeta dei piccoli (e dei grandi), allora inviato dell’Unità – raccontò quel che era successo il giorno prima a Modena. Poche parole che fotografavano la tragedia che si volle deliberatamente consumare nella civilissima città emiliana in una gelida mattina del 1950: sei operai trucidati, cinquanta feriti tra cui un bambino di dieci anni che, ignaro di quel che stava accadendo, andava a scuola.
E’ giusto e necessario spiegare ai più giovani quel che accadde, e ricordarlo a chi quella stagione di violenze anticontadine e antioperaie (“Dalla terra alla fabbrica” è il significativo titolo del fondo firmato quel giorno dal direttore dell’epoca, Pietro Ingrao) conobbe e visse sapendo chi fosse e che cosa rappresentasse Mario Scelba, il ministro dell’Interno di quella stagione. Quel ministro che, come sei mesi dopo coprirà l’alleanza con la mafia per liquidare il bandito Giuliano (il famoso “conflitto a fuoco” coi carabinieri resterà la prima e più clamorosa bugìa di Stato del dopoguerra), così quel giorno, e tanti altri, rappresentò il più funzionale punto di riferimento dei nemici di classe – si chiamavano così, almeno una volta – dei lavoratori.
E infatti Scelba era stato avvertito per tempo e per benino di quel che poteva provocare la sconsiderata decisione di un padrone (quell’Orsi-Mangelli che impiegava gli spiccioli per coltivare la più famosa scuderia di cavalli del tempo) di rispondere con la serrata delle sue Fonderie Riunite ad uno sciopero proclamato dalle maestranze per un più equo salario e migliori condizioni di lavoro. Tant’è che, a fronte di cinquecento operai a mani nude, nella notte erano stati spediti a Modena il battaglione carabinieri di Bologna, il reparto corazzato di Cesena, le compagnie al completo dei carabinieri e della celere di Ferrara, Parma, Forlì e Reggio Emilia, oltre a tutte le forze disponibili in città.
Strage deliberata. Tremila uomini armati sino ai denti non erano alle spalle degli operai schierati davanti alle Fonderie. Erano dentro lo stabilimento, come si trattasse di un fortino assediato e da difendere. Alle spalle dei lavoratori furono invece lanciati grappoli di lacrimogeni, con il risultato che più gli operai si accostavano al fortino e più dai tetti dei capannoni della fabbrica le mitragliatrici (attenzione: non mitra, ma proprio mitragliatrici) cominciarono vomitare piombo senza preavviso e soprattutto senza motivo. Una strage tra uomini assolutamente indifesi (non una pietra fu trovata, e dio solo sa quanto fu cercata dagli ispettori di Scelba per giustificare l’accaduto) e increduli: dopo l’uccisione del loro compagno Arturo Chiappelli si contarono – tra diecine e diecine di feriti – altri cinque morti: Roberto Rovatti, Angelo Appiani, Nello Garagnani, Arturo Malagoli, Renzo Bersani.
Scelba difenderà accanitamente gli autori del massacro. Il capo dello Stato Luigi Einaudi, allarmato non solo per le proporzioni dell’eccidio ma anche per la sua dinamica, convocò il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi per chiedergli spiegazioni. Non ne ebbe. Fu proclamato nel Paese uno sciopero generale. Nessuno pagò, naturalmente. Atti di grande generosità solo da sinistra. Il più significativo: d’accordo con la sua compagna Nilde Iotti, Parmiro Togliatti decise di adottare Marisa Malagoli, la sorella più piccola di Arturo, l’ultimo di sei figli di mezzadri molto poveri. Marisa entrò in casa Togliatti aggiungendo al suo il cognome del segretario del Pci. E contribuì così a formare “quella strana famiglia – racconterà più tardi colei che fu poi per tredici anni presidente della Camera – in cui non c’erano un vero marito, una vera meglie, una vera figlia, ma che era felicissima e unita”.
Pubblicato il 7 Gennaio 2010