Code per entrare nei negozi; code alle casse per pagare; code sulle autostrade che portano agli outlet, i nuovi centri commerciali. Telegiornali zeppi di immagini di consumatori affannati ma contenti che dichiarano di aver fatto un «buon affare» aspettando, per acquisti importanti, che passasse il Natale e pagando così borse, scarpe e vestiti a prezzo di saldo, ossia sensibilmente di meno di una settimana fa; e di negozianti che non nascondono la soddisfazione per aver allontanato la temibile prospettiva di un magazzino rigonfio di oggetti non venduti.
Di fronte a un simile spettacolo ci sono due motivi di perplessità. Il primo, di carattere generale deriva dalla constatazione che le code sono quasi sempre indizio di disfunzioni del mercato e che quelle dei saldi segnalano distorsioni nel meccanismo delle vendite e non sono certo il sintomo di un consumo equilibrato.
Il secondo motivo di perplessità assume la forma di una domanda ingenua: invece dei saldi sempre più frequenti, che oggi si svolgono in svariati periodi dell’anno, non si potrebbe procedere a un permanente, sia pur più moderato, abbassamento dei prezzi di vendita? Ci sono naturalmente motivazioni tecniche per le vendite a saldo, occasioni fisiologiche, soprattutto per il settore dell’abbigliamento, per smaltire modelli, colori e forme meno desiderati.
L’estendersi del fenomeno sembra però giustificare la conclusione di una riduzione nella capacità del sistema distributivo di capire ciò che il pubblico veramente vuole e quale prezzo è veramente disposto a pagare. Quando vanno al di là della loro dimensione normale, infatti, i saldi sono la misura della mancanza di conoscenza che il sistema distributivo ha dei gusti e della capacità di spesa del proprio pubblico: l’aumentare delle code è un segno della crescente distanza tra compratori e venditori, oltre che di una certa «disintegrazione» del mercato in tanti mercati paralleli che talora presentano un’ampia gamma di prezzi per lo stesso prodotto.
I milioni di italiani che stanno andando a completare in questi giorni gli acquisti del periodo natalizio naturalmente non pensano che i prezzi scenderanno; in questo caso avrebbero aspettato ancora. E’ più probabile che temano di non trovare più in futuro prezzi così bassi come gli attuali. A una simile conclusione induce un’analisi, per quanto sommaria, del comunicato dell’Istat, reso noto ieri, che contiene le prime stime degli indici dei prezzi al consumo di dicembre. Se guardiamo al passato, troviamo che la nostra inflazione è ai minimi da cinquant’anni; se però guardiamo al futuro, scopriamo che, a partire dall’estate, i prezzi hanno – per quanto poco – ripreso a muoversi.
Proiettando in avanti il dato mensile di dicembre (+0,2 per cento) si otterrebbe un’inflazione annuale per il 2010 compresa tra il 2 e il 3 per cento; non si tratta ancora di un livello allarmante, ma di un livello di attenzione sicuramente sì. Anche perché nei prossimi mesi dovremo fare i conti con alcuni non trascurabili aumenti tariffari e con la recentissima risalita del prezzo del petrolio, oltre che di altre materie prime, e questo può dare motivi di preoccupazione. In altre parole, dietro la maggiore difficoltà ad incontrarsi di venditori e compratori, dietro all’apparente euforia dei saldi, spuntano possibili anomalie che vanno seguite con attenzione.
E’ degna di nota, inoltre, l’estrema variabilità dei prezzi esaminati per comparti: nell’arco di un anno, a fronte della stabilità degli alimentari c’è l’aumento piuttosto forte (+4,4 per cento) delle bevande alcoliche e dei tabacchi, la salita del costo dei trasporti compensata dalla riduzione del comparto elettricità, gas acqua. Non ci troviamo di fronte a variazioni uniformi ma anzi a un’estrema differenziazione che si estende fino ai singoli prodotti.
Il sacco di Babbo Natale che diventa più leggero e la calza della Befana che si gonfia di saldi indicano scompensi profondi non solo nell’incerta congiuntura, ancora dominata dalla crisi, ma anche, in un quadro a più lungo termine nel modo di essere di questo paese. Sono passati i tempi in cui il consumatore medio era un entusiasta, dal portafoglio relativamente gonfio grazie alla tredicesima, che decideva la sua spesa d’impulso ed era fortemente influenzato da una pubblicità superficiale; il consumatore medio di oggi non ha molto entusiasmo e neppure molti soldi – la tredicesima serve a turare i buchi lasciati dalle buste paga mensili – ma sa di avere bisogni essenziali che deve soddisfare, come un nuovo cappotto o un nuovo paio di scarpe. Si aggira tra gli scaffali dei supermercati come un cacciatore armato di una pistola con poche cartucce e sa di non doverle sciupare, di dover mirare giusto per portare a casa il bene desiderato.
Tra lui e il sistema distributivo si svolge una specie di duello: il consumatore aspetta la sua preda ai saldi, la distribuzione cerca di fare acquistare al consumatore tutto prima dei saldi. E sullo sfondo troviamo nuove forme di distribuzione, da Internet ai gruppi d’acquisto, il cui impatto è difficile da valutare. Una maggiore trasparenza su questo intrico può essere la premessa per resistere meglio a spinte anomale in futuro.
La Stampa 05.01.10