Venti di guerra nel Golfo di Aden: il traballante Stato dello Yemen, appollaiato fra Africa e Asia, è teatro di due conflitti sovrapposti che sommano i principali attori della lunga guerra al terrorismo che ha segnato la prima decade del secolo. Il primo conflitto è quello che oppone il governo di Sana’a ad «Al Qaeda nella Penisola Arabica», le cellule jihadiste che hanno le roccaforti nelle province di Shabwa, Marif e Jouf da dove hanno pianificato e rivendicato la fallita strage di Natale sui cieli di Detroit con un’aperta dichiarazione di guerra all’America di Barack Obama.
L’evacuazione decisa dai governi di Washington e Londra delle rispettive ambasciate nello Yemen «nel timore di attentati» coincide con una escalation di mosse da parte dei due alleati atlantici: in primis, la scelta di addestrare, armare e finanziare una «forza di controterrorismo» yemenita da schierare in tempi stretti.
Poi l’annuncio di una conferenza internazionale il 28 gennaio a Londra fra tutte le nazioni «preoccupate per l’affermarsi dell’estremismo in Yemen», la tappa a Sana’a del generale David Petraeus comandante delle truppe Usa in Medio Oriente e lo spostamento verso il Golfo di Aden di un numero imprecisato di unità della Quinta Flotta di base nel Bahrein. Obama e il premier britannico Gordon Brown stanno chiedendo al presidente Ali Abdallah Saleh di lanciare un’ampia offensiva, aerea e terrestre, nelle tre province remote e montagnose, garantendogli una forte copertura politica internazionale e anche il massiccio sostegno di intelligence, droni e forze speciali per ripetere su vasta scala quanto avvenuto il 17 e 24 dicembre scorsi, allorché una trentina di militanti jihadisti sono stati eliminati grazie a due blitz yemeniti guidati a distanza dalla «war room» di Petraeus a Tampa. Se Saleh accetterà la richiesta angloamericana porterà alle estreme conseguenze la scelta filo-occidentale compiuta dopo l’11 settembre 2001, se invece ammetterà di non avere la forza necessaria per esercitare la sovranità nelle aree del territorio nazionale infestate da Al Qaeda potrebbero essere le forze speciali alleate a entrare direttamente in azione. Lo schema in questo caso potrebbe essere quello visto all’opera a metà settembre in Somalia, quando sei elicotteri e una trentina di soldati scelti americani piombarono dal nulla e in pieno giorno su un convoglio di jihadisti nel distretto di Barawe, a 250 km da Mogadiscio, eliminando Saleh Ali Saleh Nabhan, il colonnello dei miliziani sunniti shebaab che firmò gli attacchi terroristici agli hotel di Mombasa nel 2002. Petraeus considera Somalia e Yemen un unico teatro tattico perché il nemico è lo stesso: le cellule di Al Qaeda fuggite dall’Afghanistan, insediatesi in aree che sfuggono al controllo dei governi, finanziate con i proventi della pirateria e dei rapimenti, e posizionate in una zona strategica che fa del Golfo di Aden l’anello di congiunzione fra le operazioni dei jihadisti egiziani, sauditi e del Sahel.
Ma non è tutto. A rendere ancor più esplosiva la miscela yemenita – e a complicare tanto i piani militari di Petraeus che la scelta politica di Saleh – c’è il fatto che è simultaneamente in atto un secondo conflitto. Si svolge nelle province settentrionali e ha per protagonisti i ribelli Houti, ovvero le tribù sciite separatiste finanziate da Teheran e addestrate dai pasdaran nell’intento di trasformarle in una ripetizione locale degli Hezbollah libanesi. Lo scorso 20 ottobre Alì Khamenei, Leader Supremo della Repubblica Islamica, lodò in una lettera autografa i comandanti pasdaran per l’operazione «Yemen Khosh Hal» (Gioia dello Yemen) ovvero «l’addestramento degli sciiti, la fornitura delle armi che gli servono, l’impegno diretto in combattimento e il sostegno dell’intelligence». Alcune navi della Quarta Flotta iraniana, fra cui la «Salaban» e la «Khareq», sono entrate nel Golfo di Aden per sostenere i ribelli Houthi e il timore dell’esportazione della rivoluzione iraniana nella Penisola Arabica ha spinto l’aviazione saudita a entrare in azione, bombardando a più riprese le milizie sciite dentro il territorio yemenita con l’avallo di Sana’a. Per Yahya Salih, capo dell’antiterrorismo dello Yemen, Teheran sta conducendo attraverso gli Houthi una «guerra per procura» che punta a indebolire sauditi e yemeniti, due dei più solidi alleati di Washington.
Da qui la realtà di una Repubblica dello Yemen con i propri scarsi e male armati contingenti stretti fra due fuochi, i jihadisti sunniti di Al Qaeda e i fondamentalisti sciiti filo-Teheran, che hanno il comune interesse di rovesciare il presidente Saleh per perseguire gli opposti disegni egemonici regionali. E’ questo scenario che spiega la necessità da parte di Obama e Brown di prendere in esame il possibile ricorso a ogni opzione prevista dall’arsenale dell’antiterrorismo. Incluso l’uso della forza.
La Stampa 04.01.10