Scattano i nuovi requisiti: a riposo con 61 anni. Entro il 2018 il tetto a 65. Risparmi per 2,5 miliardi destinati alle politiche sociali. Sono 3.500 le dipendenti statali che non potranno andare in pensione nel 2010 e dovranno restare al lavoro per un altro anno. Sono 3.500, secondo i nuovi conti fatti dall’Inpdap, sulle 6 mila che avrebbero raggiunto i requisiti a fine dicembre 2009 secondo la vecchia normativa. Da ieri sono entrate in vigore le nuove norme, che portano l’età pensionabile delle dipendenti della pubblica amministrazione da 60 a 61 anni fino ad arrivare nel 2018 a 65 anni al pari degli uomini, con l’aumento di un anno ogni due. La legge è stata approvata prima dell’estate per adeguare l’Italia, ha sempre sostenuto il governo e in particolare il ministro Brunetta, a una direttiva europea che parifica i criteri pensionistici tra uomini e donne, e dopo il pronunciamento della Corte di giustizia europea. Ma sono state molte le polemiche che hanno preceduto quel provvedimento e durante il dibattito che ne è seguito si erano creato due schieramenti trasversali, favorevoli e contrari alla misura. In una parte dell’opposizione e del mondo sindacale si sottolineava l’ingiustizia di una norma che colpiva solo le dipendenti pubblici (nel settore privato i criteri non sono cambiati) e la mancanza di una serie di misure a sostegno delle donne che lavorano.
Soprattutto la Cgil sosteneva, e ancora sostiene, che «in realtà nel settore pubblico già oggi la maggior parte delle donne dipendenti sceglie di andare in pensione dopo i 60 anni — dice Morena Piccinini della segreteria nazionale— per esempio quelle che svolgono lavoro di ufficio, un lavoro che le gratifica, e quelle che non hanno carichi pesanti. Al contrario, a voler andare in pensione sono proprio le donne che svolgono un lavoro usurante, quelle che non vedono l’ora di riposarsi, come per esempio le infermiere, e che devono fare i turni di notte». Ecco perché, secondo la sindacalista della Cgil «il provvedimento Brunetta è ancora più crudele, perché non considera le donne che fanno lavori usuranti. Io vorrei che Brunetta non avesse in mente soltanto le dipendenti che stanno alla scrivania ». Comunque, riusciranno ad andare in pensione le lavoratrici che entro dicembre 2009 hanno compiuto 60 anni e possiedono 20 anni di contributi. In questo caso si prevede la certificazione del diritto acquisito da parte delle amministrazioni di appartenenza. La riforma, dunque, riguarderà un numero crescente di lavoratrici per la gradualità dell’ intervento, ma anche per l’aumento dei requisiti necessari per la pensione anticipata con l’introduzione delle quote. Sempre secondo le simulazioni condotte dall’Inpdap, la nuova normativa porterà ad un risparmio tra il 2010 e il 2018 di 2 miliari e mezzo di euro, che andranno in un fondo istituito presso la presidenza del Consiglio per interventi sulle politiche sociali e familiari.
«Ci auguriamo che questi soldi vengano spesi in interventi di sostegno al lavoro femminile—dice il senatore del Pd Ignazio Marino — come per esempio sgravi fiscali per le aziende che si dotano di asili nido, che consentono alle dipendenti flessibilità e opportunità di telelavoro, part-time e job sharing. Se è giusto parificare i criteri pensionistici tra uomini e donne, allora però bisogna mettere le donne in condizioni paritarie rispetto agli uomini ».
Il Corriere della Sera 03.01.10