Una impetuosa ribellione dei fiumi è chiaramente in atto da qualche giorno nel nostro Paese.
Sarebbe un ulteriore atto di insensata trascuratezza fare finta di niente di fronte ai segnali che l’ambiente naturale ci invia. Alluvioni e inondazioni sono il naturale decorso delle giornate di pioggia intensa, e da sempre le civiltà fluviali – come quelle padane o tiberine – convivono con l’andamento del fiume e le sue piene. Ma qualcosa è drammaticamente cambiato negli ultimi anni: intanto la pioggia, che oggi cade a cascata innescando le cosiddette «bombe d’acqua», quei flash flood difficili da prevedere che rovesciano in poche ore l’acqua che un tempo cadeva in settimane. Così la pioggia non si infiltra più nel sottosuolo, ma ruscella tutta in superficie e si precipita nei letti fluviali che però non sono commisurati a contenerla.
Dunque le alluvioni sono aumentate di frequenza e di intensità, non solo in Italia, ma anche nel resto del mondo, dal Brasile alla Cina. Questa però è solo una parte del problema, il resto lo fanno gli uomini che vivono nelle regioni fluviali e non si decidono a lasciare libere le aree che invece dovrebbero essere lasciate al dominio del fiume. Non è un caso che esista un letto di magra e uno di piena e non è un caso che nessun insediamento stabile veniva posto nel letto di piena dagli antichi, che conoscevano i ritmi del fiume e vi si adattavano, senza pretendere di irregimentarlo. Anche perché i vantaggi in passato erano importanti, soprattutto per l’agricoltura, che vedeva fertilizzati naturalmente i terreni dal limo, ma anche per le civiltà, che potevano permettersi di erigere la grande piramide solo grazie alle piene del Nilo che portavano le barche con i blocchi di marmo fino a Giza.
Oggi i fiumi – padri delle nostre civitates (e non solo delle urbes) – sono stati precipitati in fondo ai loro argini di pietra e senza più memoria del rapporto con la città che è nata grazie a essi. A Napoli il Sebeto è diventato un rigagnolo melmoso, mentre un tempo, quando si impaludava, permetteva a Ponticelli di rifornire di ortaggi tutta la città. A Palermo Papireto e Kemonia sono stati intombati sotto le strade, così come l’Aposa a Bologna o i Navigli a Milano. Ma non va meglio a Roma, dove quasi nessuno si accorge più del Tevere, se non quando si rischia l’alluvione a Ponte Milvio; ed è bene ricordare che in sole dodici ore le acque raggiungerebbero il Vaticano da una parte e Piazza di Spagna dall’altro.
Perduto il rapporto culturale con il fiume la speculazione ha fatto il resto, anche in un paese in cui quasi il 50% del territorio è a rischio idrogeologico, per cui si invocano le Autorità di Bacino salvo poi disconoscerle quando nelle loro prescrizioni invocano la liberazione delle aree golenali e la libertà dei fiumi. Eh sì, perché di libertà si tratta, nel senso che i fiumi si scelgono da sempre dove sfociare, e quanto più sono lasciati liberi tanto meno danni fanno e più vantaggi portano. Delta e paludi sono il sistema di sicurezza che la Terra ha escogitato per proteggere la vita lungo le linee di costa fin da quando gli uomini nemmeno esistevano.
E il Fiume Giallo in Cina sceglie da centinaia di migliaia di anni dove sfociare, cambiando estuario per un raggio di oltre 1000 km. E noi uomini invece lì, a cercare di irregimentarli, a costruire dighe sempre più grandi e argini sempre più alti, coltivando l’illusione di controllare le piene e eliminare le alluvioni, come se non si dovesse invece cercare di conviverci. Nel 1944 Francis Crove, a proposito di una grande diga sul Sacramento, scriveva: «Abbiamo messo il fiume al tappeto, lo abbiamo inchiodato alla carta geografica».
E’ passato più di mezzo secolo ma gli uomini non sembrano aver imparato che il fiume fa semplicemente il suo mestiere, e più sclerotizzano il suo corso peggio sarà: così, se oggi piovesse come quel novembre del 1966, l’Arno esonderebbe provocando molti più danni di allora. E che tutti i corsi d’acqua d’Italia sono a rischio esondazione nel prossimo futuro.
Dal grande padre Po al Tevere, dall’Adige all’Arno, ma anche dall’Ofanto al Reno, alle più piccole fiumare di Calabria e Lucania o ai torrenti di montagna, l’Italia dei mille fiumi è stata talmente maltrattata che non ci si dovrà stupire quando sembrerà che un cinico disegno della natura (per carità, sempre selvaggia e cattiva) ci voglia mettere in difficoltà: in realtà è solo e sempre colpa nostra, quella di avere quasi distrutto una ricchezza che andava meglio conosciuta e valorizzata.
La Stampa 03.01.10