Come ogni Capodanno il “cuore d’Italia”, da Palermo ad Aosta, batte all’unisono con quello del presidente della Repubblica. Gli auguri di Giorgio Napolitano alla nazione rassicurano un’opinione pubblica esasperata e stimolano una classe politica esagitata. Il messaggio è vagamente ecumenico, il plauso unanimemente bipartisan. Ma senza alcuna pretesa di rovinare lo strano “presepe italiano” di fine 2009 (in cui si contempla la proditoria anomalia di una statuetta del Duomo di Milano e in cui si celebra l’assolutoria epifania del Partito dell’Amore) bisogna riconoscere che nel vigoroso “Inno alla serenità” pronunciato dal Capo dello Stato ci sono chiavi meno scontate e note più acuminate di quello che appaiono. La “Dottrina Napolitano” si incardina intorno a una premessa e a una promessa. La premessa riguarda le questioni economiche e sociali. L’Italia, dopo mesi “molto agitati”, ha un drammatico bisogno di essere governata.
Di fronte alla gravità di una crisi che pagheremo a caro prezzo sul piano dei costi economici (pesante caduta della produzione e dei consumi) e dei costi sociali (crollo dell’occupazione e aumento della povertà e delle disuguaglianze) il Paese ha reagito più con la forza delle sue braccia che non con la leva delle riforme. Il risultato nega l’assunto del presidente del Consiglio: nessuno sarà lasciato indietro. Non è vero. Chi è più forte ce la fa: imprese che hanno ristrutturato e lavoratori a tempo indeterminato con garanzie consolidate. Chi è più debole non ce la può fare: “invisibili” del ceto produttivo (micro-imprese senza rappresentanza e professionisti senza mercato) e soprattutto “invisibili” del mondo del lavoro (giovani precari con tutele deboli o inesistenti). Questa è la vera emergenza nazionale, che finora il governo ha affrontato con un approccio minimalista. Il Capo dello Stato ripropone invariato il monito che lanciò inutilmente il 31 dicembre del 2008: da questo abisso può riemergere un Paese più forte e più giusto. Se a distanza di un anno quel discorso resta “interamente aperto”, vuol dire che chi doveva adoperarsi per trasformare la difficoltà in opportunità non l’ha fatto. Ci sono riforme “non più rinviabili”. Non regge più l’alibi biblico del Qoelet (c’è un tempo per seminare, un tempo per raccogliere). La riforma degli ammortizzatori sociali e quella del fisco vanno fatte qui ed ora. Il governo le metta in campo, e la smetta di parlar d’altro.
La promessa riguarda le questioni politiche e istituzionali. Se rispetterà i tre valori intorno ai quali si cementa il civismo repubblicano (solidarietà, coesione sociale, unità nazionale) Berlusconi non troverà mai in Napolitano un ostacolo. Anche in questo campo ci sono riforme che “non possono essere tenute in sospeso” o bloccate dalle “opposte pregiudiziali”. Ma anche qui il presidente della Repubblica rilancia la palla al governo. Le riforme istituzionali e la riforma della giustizia sono necessarie. La Costituzione può essere rivista nella sua seconda parte, secondo le procedure dell’articolo 138. Tutto si può fare, ma a tre precise e inderogabili condizioni. La prima, sui processi: le riforme siano “ispirate solo all’interesse generale”, cioè all’esclusivo “servizio dei cittadini”. Questo esclude che si possano riproporre leggi ad personam ispirate solo a un interesse particolare, e cioè al servizio di un cittadino (il premier). La seconda, sulla forma di governo: le riforme abbiano un “radicato ancoraggio” a quegli equilibri fondamentali tra potere esecutivo, potere legislativo e organi di garanzia sui quali poggia un sano sistema democraztico. Questo esclude presidenzialismi o premierati senza un corrispondente rafforzamento delle Camere e dei cosiddetti “poteri neutri”. La terza, sul metodo: le riforme esigono la ricerca della “condivisione più larga possibile”, nel solco della mozione approvata dal Senato il mese scorso. Questo esclude ogni forma di “patto scellerato”, e ricolloca il confronto nell’unico luogo aperto, legittimo e titolato ad ospitarlo, cioè il Parlamento.
La “Dottrina Napolitano” fa piazza pulita di alibi e dubbi, inciuci ed equivoci. Il suo riformismo costituzionale smonta il sintagma dei teorici di ritorno di una sedicente “rivoluzione liberale” che, nella versione periana, vedono la storica malattia italiana nell’idea stessa di un compromesso sulle regole. Il suo spirito costituente spezza il paradigma “hobbesiano” che, nella visione berlusconiana, lega l’esistenza stessa del diritto al principio di sovranità. Dove l’origine dell’ordine politico risiede solo nel riconoscimento collettivo del sovrano, dove la sovranità è il presupposto necessario per l’esistenza dell’ordine politico e dove perciò l’unico diritto possibile è il diritto posto dal sovrano (Maurizio Fioravanti, in “Fine del diritto”, Il Mulino). “Io non desisterò”, promette il presidente della Repubblica agli italiani, all’alba di questo insondabile 2010. Noi lo ringraziamo per questo. E siamo con lui.
La Repubblica 02.01.2010