Le decisioni pubbliche dovrebbero formare un puzzle dotato di qualche logica. Abbiamo sul tavolo la riforma della cittadinanza e il problema dei rinnovi dei permessi di soggiorno: è utile ripensarli insieme. Bisogna aspettare fino a 15 mesi per ottenere il rinnovo di un permesso, e 500 mila immigrati sono ancora in attesa. A un sondaggio che consentiva di dare tre risposte alla domanda sul perché la cittadinanza fosse desiderabile, il 57% degli immigrati intervistati ha scelto «per non dovere più rinnovare il permesso di soggiorno».
Se si vuole che la cittadinanza non rappresenti solo una scelta opportunistica, bisogna offrire l’alternativa di una residenza regolare meno difficile: snellire le pratiche di rinnovo, rafforzare le questure sguarnite, premiare quelle efficienti. Evitiamo che la buona conoscenza della lingua italiana costituisca una barriera per l’accesso alla carta di soggiorno. Non è ragionevole penalizzare lavoratori anziani o con bassa istruzione che hanno difficoltà a imparare una nuova lingua: rinnovi superflui costano non solo a loro, ma anche alla nostra amministrazione. È bene quindi che si stia elaborando il regolamento attuativo dell’Accordo di integrazione prima di tornare a discutere di riforma della cittadinanza. Perché questa va inserita in un percorso di integrazione che deve prevedere tappe nelle quali lo Stato non si limita a chiedere, ma dà qualcosa in cambio.
Se l’Accordo sarà attuato con buonsenso, una convergenza sulla cittadinanza come tappa conclusiva di un percorso di stabilizzazione si può raggiungere sulla base di criteri in teoria facilmente condivisibili: favorire i minori, favorire i meritevoli, essere equi e coerenti. In pratica, però, non si vedono segni di ampia condivisione dei criteri che suggerisco. Infatti, il testo uscito dalla commissione Affari costituzionali, presieduta da Bertolini, li segue solo in minima parte. Per certi versi si muove al contrario. Non fa sconti ai bambini e si impunta sul requisito di un minimo di 10 anni di soggiorno. Su questi due punti è pure più severo del testo prodotto nella XIV legislatura dalla commissione Affari costituzionali, sempre presieduta da Bertolini. Il vecchio testo concedeva la cittadinanza ai nati in Italia da genitori con 8 anni di residenza, quello nuovo mantiene la legge in vigore, per cui i nati in Italia possono diventare cittadini solo al compimento dei 18 anni, e solo se sono stati sempre regolari e sempre residenti. È una regola che non funziona.
In un Paese come il nostro, in cui il grosso dei regolari è passato attraverso un periodo di irregolarità, può accadere che bambini incolpevoli abbiano condiviso inizialmente la condizione dei genitori. Ed è pure evidente che i minori possono aver trascorso un anno o due con i nonni, visti i pesanti orari di lavoro cui sono spesso sottoposti i genitori immigrati. Una circolare del 2007 suggeriva di chiudere un occhio su questi due requisiti, ma il testo Bertolini li conferma. Non si capisce perché, come si fa in tanti Paesi europei, non si possa fare ottenere la cittadinanza prima dei 18 anni a chi è nato e a chi è arrivato da piccolo in Italia.
Quanto al tempo di residenza legale, il testo Bertolini fa ben due passi indietro: uno rispetto alla proposta del centro-destra della XIV legislatura, che concedeva uno sconto da 10 a 8 anni, e uno rispetto al presente, perché aggiunge un fardello supplementare, l’obbligo di seguire un corso annuale. L’intenzione di questa seconda misura è buona: mira a una cittadinanza meritata e propone una soluzione da tempo adottata da molti Stati dell’Unione, quella dei corsi di lingua e di integrazione. Si tratta però – è bene saperlo – di una soluzione costosa, con risultati spesso deludenti. Bisogna organizzare lezioni mirate su competenze culturali e linguistiche diverse, con orari accessibili a lavoratori che hanno spesso giornate e settimane stracolme. E poi, cosa si decide per coloro che frequentano ma non imparano? Se si trovasse comunque un accordo per vagliare i livelli di integrazione, si potrebbe convergere sull’idea di ridurre il requisito dei 10 anni di residenza per chi abbia raggiunto livelli sufficienti: che è poi il cuore della proposta bipartisan Granata-Sarubbi, che li riduce a 5 anni. A ulteriore dimostrazione che la proposta bipartisan sta in Europa e non fuori dal mondo, la riforma in discussione in Grecia accompagna misure di severo contrasto dell’immigrazione clandestina con uno sconto a 5 anni di attesa per cittadinanza e concessione del voto locale. Ma se si vuole trovare un accordo, si può concedere ai partigiani della severità un periodo di residenza un po’ più alto di 5, ma minore dei 10 attuali. Perché senza nessuno sconto la riforma suonerebbe meramente punitiva. E quel tempo potrebbe essere ulteriormente ridotto per particolari meriti: attività di volontariato, affermazioni nell’istruzione, nel lavoro, nella ricerca, nell’arte, nello sport. Questo è quanto prevede sia la nuova legge inglese, sia il «contrat d’accueil et d’intégration» voluto da Sarkozy. D’altra parte, per simmetria con quanto chiediamo agli immigrati, bisognerebbe valutare lo status di cittadino per coloro tra i discendenti dei nostri emigrati che non hanno studiato in Italia, non parlano la nostra lingua, non conoscono le nostre istituzioni, non pagano qui le tasse, ma mantenendo la cittadinanza possono votare e mandare propri rappresentanti nel Parlamento italiano. Insomma, ripensare la cittadinanza è un gioco a incastro, richiede attenzione e pazienza. Se il rinvio della discussione in aula non serve a mettere in soffitta la riforma, vale la pena di aspettare un po’ di tempo, nella speranza che ciò aiuti a maturare soluzioni sensate e condivise. Ma è evidente che la possibilità di arrivare a una riforma ampiamente condivisa dipende dalla volontà del Pdl di presentare, su questo come su altri temi, un’immagine distinta dalla Lega. Bisognerebbe che al Pdl fosse chiaro il doppio rischio di perdere verso il centro i voti dei moderati delusi, e verso la Lega i voti di quegli elettori che preferiscono l’originale alla copia.
La Stampa 02.01.2010