Massima apertura e massima fermezza. Questa potrebbe essere la sintesi della linea adottata dal presidente della Repubblica nella materia, delicatissima, non solo e non tanto delle riforme istituzionali, ma del contesto costituzionale all’interno del quale deve sempre muoversi la politica. In questo senso, il discorso tenuto davanti ai rappresentanti delle istituzioni è molto esplicito e, più che essere considerato una novità, deve essere letto come un forte chiarimento di una linea da lungo tempo perseguita.
Grande è la confusione sotto il cielo d’´Italia ma, a differenza della conclusione di uno dei “pensieri” del presidente Mao, la situazione è pessima. Più che venir considerata oggetto della attenzione riformatrice, la Costituzione sembra essere evaporata, scomparsa, lasciando una pagina bianca sulla quale esercitarsi liberamente. Proprio contro questo modo di vedere, che si è venuto diffondendo e rafforzando nell’ultimo anno, si leva il monito di Giorgio Napolitano. La sua analisi del funzionamento delle istituzioni è spietatamente realistica, ma in essa non si coglie nessuna tentazione di presentarsi come unico “custode della Costituzione”, luogo dove si determina una progressiva concentrazione di poteri secondo la versione di quella formula data da Carl Schmitt.
Vi è, invece, un imperioso richiamo alla responsabilità costituzionale di tutte le istituzioni, e al suo obbligo di vegliare perché non sia stravolta la forma di Stato, perché sia garantito l’equilibrio tra i poteri. Esattamente l’opposto della concentrazione di poteri intorno all’esecutivo divenuta la caratteristica istituzionale di questa legislatura, che il presidente della Repubblica critica nella sua portata e nelle sue conseguenze e che, invece, sembra costituire l’ispirazione di troppi “riformatori”. Si apre così una questione capitale: disponiamo di una cultura capace di sostenere una impresa tanto impegnativa quale è sempre una riforma costituzionale?
Affrontando questo tema si devono tener presenti tre punti sottolineati da Napolitano: l’abuso del riferimento alla “costituzione materiale”; la nascita di sistemi “paralleli” rispetto a quelli disegnati dalla Costituzione; la necessità di concentrarsi solo «su alcune, essenziali e ben mirate proposte di riforma». E, in tempi di strumentali esorcismi della violenza, è bene non dimenticare che il presidente della Repubblica giustamente definì “violento” dal punto di vista istituzionale il contenuto del discorso tenuto a Bonn dal presidente del Consiglio.
Parlar di “costituzione materiale” ha sempre avuto una forte ambiguità. Vi è una sua versione descrittiva di prassi più o meno diverse o integrative rispetto a quelle definite dalla costituzione formale. Vi è la sottolineatura della opportunità di razionalizzare il funzionamento di alcune istituzioni sulla base dell’esperienza. E vi è la pretesa di legittimare una “contro costituzione”, emergente nella realtà grazie alla nuda forza della politica. Questi slittamenti progressivi spingono verso l’appiattimento della costituzione sulle esigenze del sistema politico, sì che la nozione stessa di Costituzione viene travolta dall’uso tutto congiunturale che se ne fa. Non a caso Napolitano ha citato Leopoldo Elia, che metteva in guardia contro l’«illusione ottica di scambiare per mutamento costituzionale ogni modificazione del sistema politico», aggiungendo però «o del sistema elettorale».
Questa integrazione è assai significativa, perché nell’ultimo periodo si è insistito assai sul fatto che ormai proprio le norme elettorali, prevedendo ad esempio l’indicazione sulla scheda del leader della coalizione, avrebbero dato un segnale inequivocabile nel senso del rafforzamento della posizione del presidente del Consiglio, la cui investitura diretta da parte dei cittadini avrebbe sostanzialmente privato di vero significato sia l’incarico conferito dal presidente della Repubblica, sia la stessa fiducia parlamentare. Ai futuri riformatori della Costituzione, quindi, spetterebbe soltanto il compito di registrare questo dato materiale, trasformando l’Italia da repubblica parlamentare in repubblica presidenziale. Napolitano ci ricorda che non è così, che il rapporto tra governo e Parlamento rimane il «cardine dell’equilibrio costituzionale».
Questa linea è rafforzata dalle considerazioni riguardanti la compressione del ruolo del Parlamento. Uso fluviale dei decreti legge, maxiemendamenti sui quali viene posta la questione di fiducia hanno determinato «evidenti distorsioni negli equilibri istituzionali e nelle possibilità di ordinato funzionamento dello Stato», privando il Parlamento della libertà di discutere e della stessa libertà di voto. La denuncia di questa perversa costituzione materiale, di cui Napolitano ricorda la lunga incubazione, si traduce così nella indicazione di un preciso limite alla eventuale revisione della Costituzione (e pure dei regolamenti parlamentari) che, inoltre, non potrebbe legittimare il “sistema parallelo” di produzione normativa tutto centrato sul governo, che ha finito con il «gravare negativamente sul livello qualitativo dell´attività legislativa e sull’equilibrio del sistema delle fonti».
Il punto è chiaro. La controcultura che ha via via definito la Costituzione come “ferrovecchio”, “minestra riscaldata”, residuo “sovietico”, retaggio d’un passato ormai cancellato è in manifesto contrasto con il «risoluto ancoraggio ai lineamenti essenziali della Costituzione del 1948», già richiamato da Napolitano nel suo messaggio di insediamento. Questo non vuol dire che la Costituzione sia intoccabile: significa che la sua revisione non può determinare un cambiamento di regime. Emerge così un punto oscurato dalla discussione di questi tempi. Non è vero che si siano confrontati in passato e si confrontino oggi innovatori lungimiranti e chiusi conservatori. Il confronto è stato e rimane tra chi sostiene la “buona manutenzione della Costituzione”, che ne rispetta fondamenti e principi, e chi vuole imboccare una strada che è legittimo definire “eversiva” perché proprio da quei fondamenti e principi vuole prendere congedo.
Non è un caso, ancora una volta, che Napolitano parli di «essenziali» e «ben mirate proposte di riforma» e che ricordi il referendum con il quale, nel 2006, sedici milioni di cittadini (il 61,32% dei votanti) bocciarono la riforma costituzionale approvata dal centrodestra. Di questo è bene avere memoria. In tempi in cui il consenso popolare viene impugnato da Pdl e Lega come una clava per screditare le istituzioni, per promuovere campagne contro ogni forma di garanzia, è almeno singolare che questi stessi soggetti dimentichino che la loro linea venne clamorosamente sconfessata proprio da un voto popolare. E in questa apparente contraddizione si coglie un altro tratto della “costituzione materiale” che si vorrebbe proiettare nel futuro.
Un assetto costituzionale “escludente”, dove hanno voce e legittimità solo coloro i quali si riconoscono nella logica personalistica, autoritaria, e che accettano una deriva populista che li priva di autonomia critica e li accetta solo se pronti a tributare un applauso al leader. Vera riforma istituzionale è quella che può liberarci da questi rischi, già sperimentati, e che, rifiutando la riduzione del governo a logica aziendalistica, restituisca alle istituzioni quella dignità che possono riguadagnare solo se tornano ad essere davvero interlocutori affidabili e continui dei cittadini.
La Repubblica 30.12.09