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“Il parlamentismo negato alla manovra finanziaria”, di Guido Rivosecchi

Anche quest’anno l’andamento della manovra finanziaria dimostra la netta divaricazione tra le procedure formali – nelle quali il Governo non risulta sempre adeguatamente garantito rispetto ai corollari della forma di governo parlamentare “razionalizzata” – e le prassi di dubbia legittimità costituzionale, attraverso le quali si determina il surrettizio spostamento del baricentro dell’indirizzo finanziario in favore dell’Esecutivo.
Sia nel dibattito politico-istituzionale che in sede scientifica, si ripete da tempo che uno dei limiti della forma di governo parlamentare adottata dalla Costituzione repubblicana risiederebbe nella debolezza dell’Esecutivo, privo – specie se comparato con altri sistemi di governo contemporanei – dei più elementari strumenti organizzativi e normativi per svolgere il proprio indirizzo politico-finanziario attraverso le Camere.

Anche a prescindere – in questa sede – da qualsiasi più approfondita considerazione sulle virtù della forma di governo parlamentare “razionalizzata”, sulla quale – a tacer d’altro – l’attuale situazione italiana dovrebbe indurre a ben più meditate riflessioni, la tesi sopra richiamata coglie soltanto uno dei nodi problematici che emerge dalla Costituzione e dai regolamenti parlamentari. Se, invece, si va al di là del dato formale, ci si accorge che la situazione è ben diversa: proprio sul fondamentale terreno dei poteri finanziari e fiscali si assiste – nelle legislature del maggioritario – ad un consistente spostamento del baricentro della forma di governo in favore dell’Esecutivo e, in particolare, del Ministero dell’economia e delle finanze.

L’ultima manovra di bilancio non costituisce che la manifestazione più evidente di questa tendenza, proprio in questi giorni scivolata sulla ventisettesima questione di fiducia posta in diciannove mesi di vita del quarto Governo Berlusconi.

Nonostante le perplessità della Presidenza della Camera, il Governo ha infatti perpetuato l’ennesimo uso combinato del maxi-emendamento di integrale riscrittura della legge finanziaria (A.S. 1790-B) con la posizione della fiducia, che conduce – ben al di là di quanto previsto nelle forme di governo presidenziali (si pensi soltanto alle difficoltà del Presidente americano Obama a far approvare dal Congresso la riforma sanitaria) – alla riaffermazione assoluta dell’indirizzo finanziario dell’Esecutivo.

La decisione di bilancio dimostra più di ogni altra procedura parlamentare come la presunta e troppo spesso lamentata debolezza dell’assetto dei poteri del Governo in Parlamento risulti da tempo ampiamente compensata da prassi che tendono ad introdurre meccanismi in qualche modo assimilabili ad ulteriori forme di razionalizzazione tipiche dei sistemi presidenziali o semipresidenziali (si pensi soltanto all’istituto del c.d. voto bloccato francese, che consente al Governo di garantirsi l’approvazione parlamentare sui propri testi di legge).

Altra questione è invece valutare quanto sia costituzionalmente ammissibile il trapianto spurio di istituti che nascono in forme di governo completamente diverse, le quali, tra l’altro, prevedono ulteriori meccanismi di garanzia di cui la nostra Costituzione è priva (ad esempio – tanto per rimanere al contesto francese – il ricorso delle minoranze parlamentari davanti alla Corte costituzionale). Per non parlare, poi, di quanto le prassi sopra richiamate risultino di dubbia legittimità costituzionale, a partire dell’elusione della disposizione costituzionale che prevede la votazione articolo per articolo su ogni progetto di legge (art. 72 Cost.), completamente travolta dal maxi-emendamento di centinaia di commi, volto a sostituire l’intero progetto di legge finanziaria (o buona parte di esso) con una congerie di disposizioni assai eterogenee che il Parlamento, sotto la spinta del vincolo di maggioranza, è indotto ad approvare in blocco. D’altra parte, lo stesso Presidente della Camera in questi giorni ha più volte lamentato l’uso improprio e strumentale dell’istituto, finalizzato a ricompattare la maggioranza nella decisione di bilancio, pur in presenza – per lo meno in apparenza – di una base parlamentare assai coesa.

2. Dietro queste tendenze, si esprime comunque l’idea che la manovra finanziaria debba essere considerata esclusivo appannaggio dell’Esecutivo per effetto di due concomitanti fattori. Anzitutto, per compensare le carenze ravvisate nella Costituzione formale e nei regolamenti parlamentari rispetto ad ulteriori meccanismi di razionalizzazione e di stabilizzazione dell’indirizzo finanziario del Governo. In secondo luogo, per valorizzare il principio di responsabilità dell’Esecutivo in sede europea per l’andamento dei conti pubblici, sotto la spinta dei parametri di Maastricht e del patto di stabilità.

La manovra di bilancio in questi giorni all’approvazione del Parlamento – presumibilmente l’ultima disciplinata dalla legge di contabilità oggi vigente (n. 468 del 1978, come successivamente modificata), che sarà fortemente riformata dalla “Legge di contabilità e finanza pubblica”, appena approvata dal Parlamento, anche se non ancora promulgata (A.S. 1397-B) – riflette appieno questa duplice prospettiva.

Dal punto di vista procedurale, si conferma la discutibile tendenza ad una sostanziale esautorazione delle Camere, messa in atto nelle precedenti legislature. Già da circa dieci anni, si assiste infatti ad una corposa anticipazione dei contenuti della manovra attraverso uno o più decreti-legge, generalmente presentati in primavera-estate, su cui viene posta dal Governo la questione di fiducia al fine di garantirne la tempestiva approvazione. Negli ultimi due anni, le leggi nn. 133 del 2008, 102 del 2009 e 141 del 2009 (di conversione di decreti-legge), costituiscono esempi significativi della tendenza ad eludere il controllo parlamentare sulle politiche sostanziali – che costituiscono parte integrante della manovra – scorporandone buona parte dei contenuti che vengono “blindati” attraverso l’uso combinato della decretazione d’urgenza e della questione di fiducia, con l’aggravante che si tratta – anche in questo caso – di disposizioni che, dietro titoli ad effetto mediatico (“sviluppo economico”; “provvedimenti anticrisi”), esprimono tanto corposi quanto disomogenei interventi sulle finanze pubbliche, sull’economia nazionale, sull’organizzazione fiscale e sui procedimenti amministrativi nei settori più disparati delle pubbliche ammministrazioni.

Se a tutto ciò si aggiunge che la legge n. 246 del 2002 (c.d. “blocca-spese”) attribuisce, tra l’altro, al Ministro dell’economia la facoltà di sospendere l’efficacia delle leggi sottoposte all’obbligo della copertura nei limiti della spesa da esse stesse quantificata, si avrà l’ulteriore misura dello spostamento in favore del Governo del baricentro dell’indirizzo finanziario.

E’ questo l’imprescindibile contesto in cui si collocano le tanto sbandierate “novità” sulla manovra “asciutta” e sulla legge finanziaria di stabilità (che anticiperebbe alcuni aspetti della riforma della legge di contabilità), le quali – anche a prescindere dalla tutt’altro che trascurabile considerazione che ci troviamo comunque, anche quest’anno, di fronte ad un provvedimento con un articolo, titolato “Disposizioni diverse”, di oltre 250 commi – non risultano tanto frutto di un processo di semplificazione dei contenuti della manovra, quanto piuttosto della tendenza ad anticiparne ad altre (ed improprie) sedi i contenuti. Alla disponibilità della legge finanziaria rimangono comunque consistenti interventi, soprattutto sul lato della spesa, ma soltanto nei limiti dell’indirizzo finanziario predeterminato dal Governo, che lascia ben poco margine al Parlamento, specie per effetto della sopra richiamata micidiale combinazione tra maxi-emendamento e questione di fiducia.

Anche dal punto di vista sostanziale, tuttavia, rimangono spazi limitati di intervento in Parlamento. Il Governo, ormai da oltre quindici anni, ha infatti costantemente utilizzato i vincoli europei come “sponda” per indurre il Parlamento all’approvazione di politiche restrittive, affermando consistenti limiti contenutistici alla decisione di bilancio attraverso un’interpretazione evolutiva dell’art. 81 Cost. – specie alla luce dei parametri e del patto di stabilità – che ha però poco a che fare con il significato delle disposizioni costituzionali, indirizzate a stabilire le regole fondamentali sui processi decisionali di carattere finanziario tra Governo e Parlamento.

L’auspicio è che la stretta in atto sulle assemblee elettive – effetto della concomitante azione dei vincoli europei e del rafforzamento dell’Esecutivo nel processo di bilancio – non determini la surrettizia revisione della Costituzione vigente, che vede la centralità della forma di governo parlamentare e postula un conseguente margine di co-determinazione delle Camere nell’indirizzo finanziario.
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