Era più che prevedibile che l’annuncio della decisione di Papa Benedetto XVI di dare avvio al processo di beatificazione di Pio XII venisse giudicato, non solo dagli ebrei romani ma dalle più alte personalità dell’ebraismo italiano e mondiale, pur impegnate intensamente nel dialogo interreligioso, quanto meno intempestivo, a tre settimane dall’attesa prima visita del Papa alla grande sinagoga di Roma.
E’ stato detto e ripetuto da esponenti dell’ebraismo italiano, come da diplomatici israeliani, che la beatificazione rappresenta «un fatto interno alla Chiesa». Si discute l’opportunità di un giudizio che appare definitivo non solo sulle «eroiche virtù» ma anche – a torto o ragione – sull’operato storico di Pio XII, oggetto del dibattito da poco avviato tra storici ebrei e cattolici, e prima dell’apertura degli archivi vaticani successivi al febbraio 1939.
E poi ci sono le memorie. Non tanto le memorie dei secoli di persecuzioni, che la Chiesa di Giovanni Paolo II ha più volte condannato (furono più di venti le occasioni in cui il grande Papa chiese perdono per l’uno o l’altro peccato storico della Chiesa, non solo nei confronti degli Ebrei), ma memorie molto vicine, soprattutto qui a Roma: «Non dimentichiamo – hanno detto i portavoce degli ebrei romani – il treno di 1021 deportati del 16 ottobre ’43 che partì verso Auschwitz da Roma nel silenzio di Pio XII».
Sul piatto della bilancia della memoria ebraica quel silenzio pesa ancora. E come potrebbe non pesare? Anche se su un altro piatto pesa la consapevolezza che anche a Roma, dopo quella giornata tremenda, «i religiosi cattolici furono i principali attori dell’occultamento degli ebrei», e che in tutta Italia «la carità cristiana fu dispiegata durante la guerra in maniera non specifica nei confronti degli ebrei, ma sicuramente in maniera speciale, per motivi di quantità e di particolare allarme per le loro vite». Cito Liliana Picciotto, forse la maggiore studiosa ebrea della persecuzione che costò la vita a più di ottomila ebrei italiani, e a sei milioni di ebrei europei.
Ha scritto ancora Liliana Picciotto: «Il rifugio nei conventi e nelle case religiose, l’aiuto dei parroci nei piccoli centri, la disponibilità e il soccorso prestato da esponenti o semplici iscritti all’Azione Cattolica fu di tale proporzione da assumere un aspetto corale». Secondo l’amica Liliana, nel suo intenso saggio che conclude il volume su «I Giusti d’Italia», voluto dal presidente Fini: «Al contrario di molti osservatori, non pensiamo che per questa opera fosse necessaria una specifica direttiva papale». Sono d’accordo che tanti sacerdoti agirono d’impulso, per virtù cristiana. Ma ammetto che io mi colloco fra «i molti» che ritengono non solo probabile ma sicuro che il Papa, dopo l’indimenticato silenzio del 16 ottobre ’43, approvò e stimolò l’opera di salvataggio degli Ebrei, non solo a Roma ma in tutta Italia, non solo ad opera di parroci di campagna ma di vescovi e autorevoli cardinali. Un esempio fra tanti: a Roma tedeschi e fascisti sapevano bene che il complesso del Laterano, che godeva di extraterritorialità, e innumerevoli case religiose che non godevano di tale privilegio, ospitavano ebrei o antifascisti. Furono molte migliaia, compreso tutto il vertice del Cln, e molti ebrei, quelli ospitati nel complesso lateranense nell’arco di tempo dell’occupazione tedesca, e che così si salvarono. Il Laterano rimase un rifugio (e Andrea Riccardi ha trovato conferme che il Papa sapeva), anche dopo l’invasione fascista dell’abbazia di San Paolo, che pure godeva anch’essa della extraterritorialità, e dove furono arrestati 96 fra ebrei, antifascisti e militari.
Esito a giudicare le scelte del Papa di quei tempi tra parlare e tacere. Se il Papa avesse pronunciato una pubblica condanna dell’olocausto ebraico avrebbe compiuto un eroico atto di martirio, coinvolgendo tutta la Chiesa. Ma gli ebrei italiani vittime della Shoah sarebbero stati molti più di ottomila.
Penso che sarebbe stato saggio rispettare con una più lunga attesa, prima di aprire la strada alla beatificazione di Pio XII, i sentimenti degli Ebrei sopravvissuti e dei loro discendenti, e lasciare più tempo agli storici. Ma auspico che, nel tempo che manca alla data prevista per la visita del Papa, le autorità cattoliche ed ebraiche trovino modo di ricomporre quel clima di comprensione, di dialogo, di fiducia, che si è costruito in questi anni; e che quindi la visita si possa fare in atmosfera serena. Prendo atto che il Papa, un Papa che ha avuto in tante occasioni parole di affetto verso gli Ebrei, ha già lanciato un primo segnale con una rinnovata durissima condanna della Shoah. Forse occorrono altri pronunciamenti. Le buone parole possono curare molte ferite.
La Stampa 23.12.09