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Franceschini: intervento alla Camera dei Deputati sulle nuove norme per la cittadinanza

Signor Presidente, al porto di Genova è in corso una bellissima mostra che spero, con l’intervento dello Stato, possa diventare un museo permanente sull’emigrazione italiana. Da quel porto sono partiti milioni di italiani: sono 27 milioni gli italiani che in un secolo sono andati a cercare la fortuna dall’altra parte e la strada per uscire dalla miseria. Abbandonavano tutto: la loro terra, la loro casa, le famiglie e anche loro attraversavano un mare, attraversavano l’oceano, viaggiavano per settimane, cercavano il nuovo mondo, e sognavano anche loro un futuro migliore, senza povertà, per loro e per i loro figli. Le navi di terza classe erano piene fino all’inverosimile di uomini, di donne, di bambini, di valigie ed avevano per destinazione privilegiata «La Merica» (come si intitola quella bellissima mostra) ed avevano come destinazione privilegiata New York, ma si affermavano qualche miglio prima, a Ellis Island, l’isola che faceva da frontiera, un luogo di attesa, di speranza ed anche di umiliazione: erano sottoposti a interrogatori, domande, sospetti, visite e verifiche. Penso che ogni italiano di oggi dovrebbe passare di lì, a Ellis Island, per potersi specchiare negli occhi dei nostri nonni, in quelle foto ingiallite e piene di sguardi fatti di paura, ma anche di speranza e di orgoglio, perché per loro iniziava la fatica di entrare in un mondo diverso, cercare un tetto sotto cui ripararsi, un lavoro e cominciare a vivere di nuovo. Non c’è stereotipo, che sia stato usato in questi anni nei confronti degli immigrati nel nostro Paese, che non sia già stato usato per i nostri nonni, per quelli italiani: rubano il lavoro ai giovani, sono tutti delinquenti, ci stanno invadendo. Non si contano quanti sono stati oggetto di queste generalizzazioni. Spesso eravamo anche clandestini e c’è stato un tempo in cui i Paesi confinanti ci chiedevano di controllare i passi alpini non per bloccare gli arrivi, ma per bloccare le partenze. Di là dall’oceano ci chiamavano «Dago», che più o meno vuol dire accoltellatore, pugnalatore, perché i nostri connazionali usavano bene il coltello. Dovremmo ricordare cosa significhi, non tanti anni fa, avere nei bar o nei ristoranti il cartello con scritto: «vietato l’ingresso ai cani e agli italiani». La storia, del resto, quando spinge alla disperazione, muove milioni di persone e spesso fa ripetere le cose. Nel nostro passato si vedono le stesse cose che oggi vediamo; non inventa nulla la storia. Fa impressione assistere alla leggerezza e alla disinvoltura con cui, in un colpo solo, troppa parte di questo Paese dimentica la sua storia e si calpestano i principi più elementari di umanità e di accoglienza. Invece nessuno più di noi italiani, un popolo di migranti, dovrebbe reagire quando vengono calpestati quei principi. Oggi è l’Italia che accoglie, oggi è l’Italia che è già un Paese diverso, è l’Italia che è cambiata. Non c’è bisogno di demografi, basta chiedere all’ostetrica di un ospedale qualsiasi e ti dirà che, su nove bambini nati nei nostri ospedali, uno è figlio di genitori stranieri. Oggi in Italia c’è tutta una generazione di persone che è un errore definire immigrate, che non si sono mai mosse dal nostro Paese per il semplice fatto che qui è cominciata la loro avventura umana: sono nate qua; e una parte di questa generazione, una parte molto grande, è già maggiorenne, ed è nata ed è diventata maggiorenne nel nostro Paese. Allora riconoscere diritti è l’obiettivo di una legge giusta sulla cittadinanza. Noi l’abbiamo già presentata nella scorsa legislatura, poi non c’è stato il tempo e l’abbiamo ripresentata già nell’aprile del 2008. Si diventa cittadini italiani se si è nati in Italia; se si è minori e si studia in Italia e – questa è una novità assoluta – c’è la possibilità dell’attribuzione della cittadinanza – che non è più solo una concessione dello Stato, come ha detto bene l’onorevole Bressa questa mattina – dopo cinque anni, se lo si vuole, se ci si crede, naturalmente assolvendo ad alcuni requisiti elementari, come la conoscenza della lingua, il reddito minimo previsto in Europa, il giuramento di osservanza della Costituzione e il rispetto della pari dignità sociale dei cittadini. Si diventa cittadini perché lo si vuole diventare, non perché qualcuno te lo concede: la cittadinanza come primo e principale motore dell’integrazione: è una questione di civiltà ed è una questione di giustizia. Stiamo facendo in questi giorni – non è la prima volta – un dibattito politico sulle riforme istituzionali che dovremmo giustamente cercare di fare insieme, maggioranza e opposizione. Naturalmente la riforma dalla quale cominciare è sempre quella successiva. Ne abbiamo una qua, è sicuramente una riforma istituzionale, riguarda il diritto di cittadinanza e migliaia di persone. Cominciamo da qua, misuriamo da questo provvedimento che non è nel dibattito sui giornali, ma è qui in Assemblea pronto ad essere votato il mese prossimo. Misuriamo da questo provvedimento se c’è veramente la volontà dell’opposizione e della maggioranza di cercare, naturalmente, un’intesa sui contenuti, una cosa concreta che serve al Paese. Cominciamo da questa riforma istituzionale a misurare la realtà tra le parole e i fatti. Cominciamo da qui, verificando anche dal voto in Assemblea se c’è una corrispondenza tra le parole, anche importanti, pronunciate da molti esponenti e leader della destra di fare un passo avanti sul tema della cittadinanza. Misuriamolo qui. È ora di chiudere i dibattiti e di passare al voto. Per questo trovo assolutamente sgradevole, sbagliata e da respingere l’affermazione – che prima correva nei corridoi, adesso è stata pronunciata in Assemblea – secondo la quale dovremmo rinviare l’approvazione della legge sulla cittadinanza a dopo le elezioni regionali. Io debbo chiedere: che cosa c’entrano le elezioni regionali (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico)? Se una norma è giusta e va incontro ad un principio costituzionale, si può pensare di approvarla o meno prima o dopo le elezioni regionali perché
questo potrebbe spostare in termini di consenso e di voto? Ma chiedo, che rispetto è degli elettori questo: «La facciamo dopo perché così avete già votato!». Allora vedremo qui. Con il voto in gennaio misureremo qui l’idea di quelli che sono contrari ad una società multietnica, come è stato detto, che sono fermi ad un’idea della cittadinanza che deriva solo dal sangue dalla nascita dall’appartenenza razziale e non sopportano il pensiero che ci siano più e nuovi italiani. Però si devono rassegnare: questo sta già avvenendo, l’Italia è già cambiata e non aspetta il legislatore. Lo sanno gli imprenditori del nord per cui l’immigrazione è una risorsa preziosa. Lo sanno i milioni di famiglie che vivono grazie alla cura dei loro cari da parte di persone straniere. Lo sanno i nostri figli e i nostri nipoti che a scuola, come compagno di banco, ogni giorno di più hanno bambini di un colore differente dal loro, di un’altra religione, che però parlano la stessa lingua, tifano per la stessa squadra di calcio e sognano di fare da grandi lo stesso lavoro. È proprio nelle scuole che è cominciata l’Italia di domani, là dove bambini pakistani, maghrebini, albanesi, cinesi imparano l’alfabeto assieme, dividono lo stesso banco, gli stessi giochi e gli stessi sogni per il futuro. Quindi, basta con questo collegamento automatico tra sicurezza e immigrazione. La sicurezza è un diritto che lo Stato deve garantire a tutti i cittadini, ma non c’è un automatismo con l’immigrazione. Anzi, non rinunciamo a dire, anche se è impopolare, che le nostre città, che stanno diventando multietniche, dove è garantita la sicurezza, possono essere più giovani, più vive, più dinamiche e che proprio gli immigrati integrati potranno aiutarci a combattere la criminalità legata all’immigrazione clandestina, perché è nel loro interesse combattere la criminalità e il racket e per noi anche combattere la tristezza di società vecchie e impaurite. Del resto così è l’Italia, così è la storia italiana: la nostra identità attuale quella che giustamente difendiamo è il frutto di millenni di incontri tra culture e lingue diverse. Pensiamo alle nostre città, al nord, lo dico gli esponenti della Lega Nord Padania: Genova, crocevia di marinai e mercanti, dove nei secoli la lingua si è arricchita di parole arabe, spagnole, francesi e di molte altre influenze. O pensate a Venezia: un incrocio, un miracolo, fatto da italiani, ma anche da mosaicisti bizantini, da intagliatori arabi, da tappezzieri turchi. Pensate ai nostri dialetti alle cadenze greche del barese, a quelle arabe del siciliano e del calabrese, alle comunità che dopo millenni continuano ancora oggi a parlare in albanese antico, alle influenze francesi in Piemonte, a quelle spagnole in Lombardia, a quelle slave nel nordest. A questa eredità, unica al mondo, dobbiamo dare un futuro: l’identità non è immobile, è qualcosa di vivo che si costruisce ogni giorno. È la costruzione paziente e tenace di un nuovo patriottismo nel segno dell’apertura, del rispetto delle regole e dei doveri insieme ai diritti per tutti. Nel segno della nostra Costituzione e dei valori che la esprimono, questa è una battaglia giusta. È una battaglia che contribuisce a costruire un Paese migliore, abitato anche da nuovi italiani, protagonisti con noi di un’identità nazionale rivolta al futuro; un’identità che non è costruita nel rifiuto delle diversità, ma attraverso i valori dell’accoglienza e dell’integrazione. È una battaglia giusta e noi la faremo comunque.
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