Gli ultimi sondaggi sembrano attestare una significativa crescita di consenso di Silvio Berlusconi dopo l’aggressione di Piazza del Duomo (l’indice sarebbe cresciuto di sei-sette punti). I numeri sono la prova provata del successo propagandistico ottenuto dalla campagna del Pdl. In sintesi, secondo Fabrizio Cicchitto e soci: i nemici del Cavaliere hanno creato un clima di odio, e in questa atmosfera livida si è scatenata la violenza di Massimo Tartaglia. Uno “psicolabile”, che però ha riassunto nel suo gesto l’avversione antropologica verso il premier, un sentimento che secondo il sondaggista Renato Mannheimer accomuna il 20-25 per cento del centrosinistra.
L’aspetto pubblicitario di questo argomento è stato immediatamente raccolto ieri nella telefonata del premier ai giovani del Pdl radunati a Verona. Il ragionamento di Berlusconi è stato di una semplicità assoluta. Quando si racconta che il capo del governo non soltanto frequenta minorenni (e prostitute), ma viene additato anche come corruttore, mafioso e stragista, non c’è da stupirsi se certe menti deboli si fanno prendere la mano. Fin qui l’inversione dei fatti e delle responsabilità è vistosa. Le accuse, o almeno le critiche, a Berlusconi non derivano da un “cervello unico della sinistra”; a parlare di minorenni è stata Veronica Lario; di escort un’inchiesta giudiziaria barese; di corruzione di testimoni (il caso Mills) la sentenza di un tribunale, di mafia un pentito nel corso di un processo regolarmente istruito.
Ma ignorare la realtà è una delle migliori specializzazioni del Pdl. Di fronte a ogni contestazione sui fatti, in base a notizie circostanziate, i portavoce della destra rispondono strillando contro i fomentatori di odio e i celebri mandanti morali. Quando in realtà, di fronte a ciò che dicono, che so, Marco Travaglio o Antonio Di Pietro, si tratterebbe solo di capire se è vero o se è falso. Al di là della loro aggressività possono essere smentiti o no? Da parte dei “combattenti” della destra, come Maurizio Lupi e Fabrizio Cicchitto, non si è mai ascoltata una contestazione seria su fatti ed episodi concreti. In questo modo la retorica nazionale sull’odio è diventata un dato di fatto, una specie di incontestata realtà ambientale. E Berlusconi, che ha fabbricato una carriera politica proprio dividendo in due la società italiana e separando i nemici, “i comunisti”, dai cittadini per bene, oggi può consentirsi di fare il benevolo padre della patria, augurandosi che “da un male nasca un bene” e che l’odio svanisca dalla politica.
Sarebbe tuttavia un fraintendimento, e grave, pensare che il premier sia cambiato. E che sia cambiata la sua concezione della politica. Vero è che dalla convalescenza di Arcore sfoggia formule di tolleranza volterriana (“Da quest’ultima esperienza dobbiamo essere ancora più convinti di quanto abbiamo praticato fino ad oggi e cioè che sia giusto il nostro modo di considerare gli avversari come persone che la pensano in modo diverso da noi, ma che hanno il diritto di dire tutto ciò che pensano, che noi dobbiamo difenderli per far sì che lo possano dire e che non sono nemici o persone da combattere in ogni modo, ma sono persone da rispettare. Lo facciamo noi con gli altri e ci piacerebbe che lo facessero gli altri nei nostri confronti”).
Tuttavia queste sono parole. Dietro ci sono le idee. E le idee di Berlusconi sulla democrazia liberale sono a dir poco singolari. Perché il premier e i suoi uomini sono convinti di poter imporre la loro agenda politica anche all’opposizione. Sarebbe utile formulare un programma di riforme istituzionali per rendere più efficiente lo Stato e più giusta la giustizia? Già, ma per avviare un riforma condivisa il Pd faccia il piacere di liberarsi dall’alleato più ingombrante e vocale, cioè Antonio Di Pietro, ormai demonizzato senza pietà come un eversore. E Pier Luigi Bersani si tolga dai piedi le ultime cianfrusaglie movimentiste, rinunci alle idee “socialiste”, e se è il caso abbandoni al loro destino anche gli esponenti più combattivi, i “bolscevichi bianchi” irriducibili al “consenso organizzato” (di brezneviana memoria) come la pasionaria Rosy Bindi.
A suo modo la concezione di Berlusconi è talentuosa, anche se lontana da ogni concezione moderna della democrazia. Il premier sta rivelando ciò che ha sempre pensato, nella sua ormai lunga carriera pubblica. La politica è unica, senza distinzioni fra maggioranza e minoranze. Senza articolazioni culturali, ideologiche e neppure organizzative. Si tratta semplicemente di annettere per corporazioni, o per “caste”, i blocchi politici dell’intero spettro rappresentativo. Il resto viene di conseguenza: riforme concesse dall’alto, come le costituzioni nell’Ottocento, per ritagliare giochi di ruolo da attribuire a partiti-simulacro. Una società d’ordini come nell’ancien régime. Retorica epocale su federalismi e autonomie, in modo da nascondere la realtà del comando unificato e dell’opposizione ridotta a flebile strumento di sua Maestà. Una Costituzione aziendale per assecondare il decisionismo post-democratico. E sullo sfondo, insieme con il perdono di Stato per il premier-sovrano da attuare con leggina ad personam, o con inciucio kolossal, ecco infine l’immagine che incombe sul sistema democratico: quella del “partito unico”, approvato con elevati sondaggi e un senso di liberazione dall’odio dalla democraticissima e disincantata Italia contemporanea.
La Repubblica 21.12.09