Nelle prime ore della mattina di venerdì 18 dicembre qualcuno ha strappato via la targa di metallo con la scritta “Arbeit macht frei”, che sovrastava l’ingresso del lager di Auschwitz. È stato un gesto deliberato, preparato accuratamente: solo questo è quel che sappiamo per ora.
Non conosciamo gli autori: ma sappiamo perché l’hanno fatto e come si chiama il loro delitto. Si tratta del furto non di un pezzo di metallo, ma di un simbolo sacro alla memoria dell’umanità. È dunque un reato di lesa memoria umana quello che è stato consumato.
Qualcuno forse si chiederà perché quel simbolo non fosse sorvegliato, perché non ci fosse una polizia speciale a impedire l’azione criminale.
Ebbene, noi non crediamo che si debba proteggere a forza quel simbolo: è l’umanità intera che deve sapere quale soglia altissima di rispetto e di tutela debba alzarsi nella mente di tutti davanti a quel pezzo di metallo. È da lì che deve emanare una forza capace di tenere lontana ogni volontà aggressiva. Come la biblica Arca dell’Alleanza, che si tutelava da sola folgorando l’incauto che allungava la mano per sostenerla, la scritta di Auschwitz deve bruciare gli infami che hanno consumato il sacrilegio.
La scritta “Arbeit mach frei” significa Auschwitz, Auschwitz significa la Shoah: e queste sono le colonne d’Ercole oltre le quali l’umanità intera è entrata in una nuova storia, ha scoperto il paesaggio devastato del mondo nuovo, ha saputo che Dio era morto. A chi voleva continuare a vivere in un mondo dove si respirava un’aria densa delle ceneri di milioni di morti, si impose un solo comandamento: ricordare. Uno solo: ma non fu facile accettarlo.
Nell’opera della ricostruzione, tra le macerie della guerra, i pochi testimoni sopravvissuti alla Shoah incontrarono enormi difficoltà a farsi ascoltare. Il processo lungo e difficile attraverso il quale quella storia è stata non spiegata, non compresa – impossibile comprendere, impossibile spiegare – ma almeno raccontata per ricomposizione di indizi e dati statistici è sufficiente a mostrare la difficoltà di ricordare ma anche l’assoluta necessità della memoria.
È un dovere intollerabile e inevitabile. Che sia intollerabile lo sappiamo bene. L’asportazione della scritta di Auschwitz lo dimostra. Molti sono i percorsi battuti per raggiungere lo stesso effetto: aggiustando l’arredo del campo, inserendovi simboli e presenze religiose istituzionali, mettendo via via a rischio la desolazione di uno spazio che la presenza immateriale di milioni di vite cancellate ha reso l’unico vero spazio sacro della storia umana dopo la cesura irrecuperabile tra passato e futuro che si chiama Shoah.
Perdita di memoria: è questo che si vuole ottenere. Lo tentarono gli aguzzini che cancellarono coi forni crematori l’esistenza delle vittime e si preoccuparono di nascondere le tracce di quel che avevano fatto. Lo hanno tentato poi, in vario modo, gli avamposti dei narratori accademici della storia, con le loro faticose elaborazioni sul “passato che non passa”.
Erano solo le avanguardie di un’umanità che voleva inghiottire a ogni costo quel groppo intollerabile. E tuttavia, da allora, una legge non scritta, incisa nei cuori, ci dice che c’è un solo dovere, una sola legge obbligatoria per chi vuole continuare a vivere nel mondo che ha conosciuto la Shoah: ricordare.
È per questo che ogni anno milioni di visitatori compiono un pellegrinaggio che è l’ultima sopravvivenza del sacro nella quale l’umanità tutta, senza distinzioni di culture o di religioni, è obbligata a riconoscersi: la visita ai lager nazisti, quella minuscola città sacra che occupa uno spazio immenso, quella vasta necropoli senza tombe di cui Auschwitz è la capitale.
È da lì in poi che la storia del mondo è cambiata. Se è vero che ciò che ci costituisce come esseri umani è la memoria, è un fatto indiscutibile che solo lì è nato il legame di memoria che ha unificato la nostra specie. Al di sopra delle appartenenze nazionali e delle identità culturali e religiose, tutti sono obbligati a riconoscersi in quel simbolo e a guardare a quella scritta che oggi è stata rubata.
Noi tutti sappiamo che ricordare la Shoah, ricordare Auschwitz, è l’unico modo che ci rimane per metterci in guardia da noi stessi. Perciò quella scritta deve tornare al suo posto: è un reperto sacro. Né si dovrà sopportare che gli autori di questo crimine contro l’umanità restino impuniti. Il loro atto è un’offesa a milioni di morti, un delitto contro i viventi di oggi e di domani, un attentato al legame di memoria che ci unisce al passato e che vogliamo trasmettere al futuro.
La Repubblica 19.12.09
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I nemici della memoria, di ELIE WIESEL
Chi è stato a rubare l’insegna di Auschwitz, recando offesa alla memoria degli ebrei e a chi è impegnato a tutelarla? Da dove vengono? Che intenzioni hanno, qual è il loro progetto? Questo incidente criminale riverbera la sua immagine in tutto il mondo e suscita stupore, shock e rabbia.
Cosa avevano in mente i ladri quando hanno rimosso l’iscrizione che centinaia di migliaia di vittime, arrivate nel campo, vedevano ogni giorno, ogni sera? Cosa immaginavano di poter fare? Di venderla in televisione per enormi somme di denaro? Di tenerla incorniciata a casa loro? Quale idea perversa può aver motivato un simile abominio?
In questa nostra era di confusione e sfiducia, la Verità è sempre in prima linea, al fronte, e i suoi nemici sono i nemici della Memoria. Dunque, quel Luogo è d’importanza e significato speciale, perché si basa su entrambi quei valori costitutivi, Verità e Memoria. Chiunque voglia cancellare il passato ha naturalmente interesse a rimuovere quella scritta, che è parte così visibile del Passato della Memoria.
In un certo senso, si può esprimere sorpresa per il fatto che non si sia mai tentato prima di compiere quanto è accaduto oggi. È così facile distruggere, è così facile rubare, eppure, grazie al cielo, persino quelli che sono i nostro nemici non avevano osato, fino ad oggi, di intraprendere un simile furto.
In virtù di ciò che è avvenuto all’interno di quell’incommensurabile cimitero di cenere, Auschwitz deve restare un monumento intoccabile al dolore, allo strazio e alla morte di più di un milione di ebrei e altre minoranze. Benché protetto a livello internazionale dalla rabbia e dalla pietà che suscita in centinaia di migliaia di visitatori provenienti da tutto il mondo, il campo necessita ovviamente di maggior sicurezza.
La Repubblica 19.12.09