Può darsi – anche se appare assai difficile – che, dopo le inaspettate dimissioni della presidente della Conferenza sul clima, i leader dei principali Paesi del mondo riescano ancora a stringersi la mano davanti alle telecamere di Copenhagen e a mettere la loro firma su un accordo di compromesso. Anche in questo caso ci troveremo di fronte a un risultato deludente: dopo i netti contrasti di questi giorni, un’eventuale intesa di facciata dell’ultima ora sarà poco più che «aria fritta», per usare una classica espressione italiana, o «aria calda», per usare l’analoga espressione inglese, del tutto appropriata a una conferenza sul clima.
Il messaggio che uscirà da Copenhagen pochi giorni prima del Natale sarà la fine, almeno temporanea, del «buonismo», o, se si preferisce, del buon senso, in materia climatica. E’ tramontata la speranza che l’evidenza dei dati scientifici e dei mutamenti facilmente verificabili si sarebbe imposta sugli egoismi e sulle miopie dei principali Paesi del pianeta; che i capi di questi Paesi, impauriti dall’arretramento dei ghiacci e dall’avanzamento dei deserti, si sarebbero solennemente impegnati a ridurre entrambi con l’adozione di misure adeguate. Al contrario, gli egoismi nazionali sono addirittura esplosi, e si è passati rapidamente dai discorsi sui principi e sul lungo periodo al litigio sui soldi (molto pochi in questo momento di crisi) disponibili nel breve periodo per arrestare questa minaccia planetaria.
Il clima sembra così essersi trasformato in un gioco a somma negativa in cui tutti escono con la faccia rossa. Primo fra tutti il governo danese, al quale la conferenza è scappata di mano, alimentando le accuse dei Paesi poveri di volerne «pilotare» le conclusioni in favore dei Paesi ricchi. I secondi a soffrirne sono indubbiamente i climatologi: grazie a uno sfortunato «incidente» sono state messe in rete le comunicazioni di posta elettronica di diversi scienziati, dai quali appare possibile che certi risultati siano stati «addomesticati» per dare maggior evidenza al fenomeno del riscaldamento globale, anche se questo non significa necessariamente che il riscaldamento stesso non esista. I non addetti ai lavori hanno così appreso che i dati «esatti» sulle temperature medie sono frutto di una «lavorazione statistica» e che i dati sulle temperature non sono, in definitiva, molto più precisi di quelli sui prezzi o sulla produzione. Se è vero che la crisi finanziaria dovrebbe insegnare un po’ di umiltà agli economisti, la crisi climatica che stiamo vivendo dovrebbe indurre gli addetti ai lavori a minori certezze e a una minore supponenza.
I peccati che si possono imputare ai meteorologi sono però, tutto sommato, ben più leggeri delle accuse che sono piovute sul capo dei politici dei Paesi ricchi. I Paesi emergenti li accusano di aver drammatizzato i dati sul clima per introdurre una sorta di «colonialismo climatico»: dopo avere allegramente inquinato il mondo per duecento anni, le grandi potenze dell’Occidente agiterebbero ora lo spettro del riscaldamento globale per frenare la gigantesca espansione produttiva della Cina, del Brasile e dell’India e bloccare così l’erosione del loro potere economico.
I Paesi ricchi avrebbero favorito il trasferimento nei Paesi poveri delle lavorazioni industriali più inquinanti e cercherebbero oggi di aiutare ancora una volta le proprie multinazionali, che hanno sviluppato le tecnologie del disinquinamento ambientale, a espandere la loro attività in tutto il mondo. Gli africani, poi, si sono espressi con particolare durezza denunciando di essere vittime di un nuovo tipo di sfruttamento in quanto i loro territori sono trattati troppo spesso prima come fonti di materiali da sfruttare senza alcun riguardo all’inquinamento e poi come pattumiere ecologiche in cui depositare i rifiuti di queste stesse materie prime lavorate altrove. Si tratta di accuse non infondate ma rivolte più al passato che al futuro. I Paesi emergenti dovrebbero rendersi conto che, indipendentemente dagli inquinamenti passati, il mondo non può permettersi di aumentare la quantità di materiali inquinanti immessi nell’ambiente. Agli africani occorrerebbe poi chiedere sommessamente perché, essendo indipendenti ormai da mezzo secolo, non usano meglio la loro indipendenza e continuano a peggiorare la situazione con guerre feroci tra di loro invece di svolgere azioni più coerenti per la difesa dei propri interessi comuni.
Mentre l’attenzione mediatica era concentrata su quanto stava accadendo nelle strade di Copenhagen, dove polizia e manifestanti si sono scontrati con particolare durezza, gli scontri più gravi avvenivano quindi nel chiuso delle stanze in cui si svolge la Conferenza. Quello che doveva essere un momento di unione e di solidarietà rischia di trasformarsi in momento di confusione, di polemiche, di ripicche. Da queste divisioni interne potrebbe derivare un altro ostacolo alla continuazione dell’attuale esperimento di globalizzazione: gli imprenditori europei, costretti a imponenti investimenti per rispettare i rigidi vincoli climatici decisi a Bruxelles hanno buon gioco a chiedere un «dazio ecologico» sulle importazioni provenienti da Paesi che non impongono simili vincoli e le relative spese. Per evitare di cadere in un baratro ad un tempo economico ed ecologico, tutti dovrebbero fare un passo indietro: si tratta di una splendida occasione per il presidente Obama, fresco di un (discusso) premio Nobel per la pace di dimostrare di avere veramente la statura di un leader mondiale.
La Stampa, 17 dicembre 2009