Se pensate che «strategia della tensione », per chi ha meno di quarant’anni, non sia ormai che un vecchio slogan troppo oscuro da capire provate solo — per un minuto — a far più buio ancora. Ditegli solo di chiudere gli occhi e ascoltare questa voce. «Era metà pomeriggio, stavo tornando a casa e mi sono fermato a far benzina. In effetti l’ho saputo da lui, dal benzinaio: ‘Ha sentito? Hanno messo una bomba alla Bna di Piazza Fontana’. E come un lampo mi è venuto in mente che mio padre era là. Trattava lubrificanti per macchine agricole, quel giorno c’era il mercato. Ho girato la macchina e sono corso. Al cordone di polizia ho spiegato, mi hanno fatto passare. E così ho visto i primi morti. Ma lui non c’era. Neanche tra i vivi lì attorno però. A casa neppure. Ho pensato: disperso in giro? In ospedale? Ma quale? Allora sono andato in questura, per chiedere. E ci ho trovato mio fratello Giorgio, arrivato lì per lo stesso motivo. Ci hanno mostrato un elenco di nomi: niente. Stavo quasi per tirare il fiato. Finché invece un funzionario ci ha detto che ‘in realtà abbiamo un morto non ancora identificato’. Ci ha accompagnato in obitorio. Hanno sollevato un lenzuolo. Sotto c’era papà». Si chiamava Carlo Silva e aveva 71 anni, dice oggi suo figlio Paolo. Per sbrogliare una parola come «strategia» possono anche non bastare dieci processi e otto lustri. Ma «tensione», se si va alla sua essenza, è un concetto drammaticamente semplice.
Quarant’anni sono lunghi. Ma i familiari dei sedici che la bomba di piazza Fontana si portò via il 12 dicembre 1969 — diciassette con Paolo Gerli, morto anni dopo per i postumi — sono forse l’unico pezzetto d’Italia che non ha mai smesso di contarli. «Quando si dice che per quella strage non è stato condannato nessuno — Paolo e Franca Dendena quel giorno persero il padre Pietro — si dimentica che questo è oggettivamente vero solo per metà: noi la nostra condanna la stiamo scontando da allora. E direi che ci hanno dato l’ergastolo, no?». Con tutti gli annessi, di fatto: l’ultima sentenza della Cassazione, quella che nel 2005 prosciolse definitivamente tutti gli altri , per gli automatismi della legge inflisse alle vittime anche il pagamento delle proprie spese processuali. Ci mise una pezza il governo, facendosene carico con un atto di «generosità» perché dello Stato si salvasse almeno la faccia. Franca è quella che presiede l’Associazione dei familiari, formalmente costituitasi per piazza Fontana solo pochi mesi fa: «Prima facevamo parte di quella che raccoglie tutte le vittime delle Stragi italiane». E del resto ciascuno convive col suo lutto a modo proprio: le famiglie dell’Associazione sono una decina; di alcune altre, come quella di Attilio Valè, non esistono più parenti; altri, un po’ alla volta, hanno preferito ritirarsi e sparire. Vale anche per quegli 80 e passa feriti, che il bilancio della memoria omette spesso di calcolare: come i fratelli Enrico e Patrizia Pizzamiglio, allora poco più che bambini (lui perse una gamba), che da anni gestiscono in silenzio la loro edicola a Milano e a cui tornare a quel 12 dicembre provoca solo la riapertura della ferita. «La storia è lì. Non tocca a noi parlare », dicono. Carlo Arnoldi invece — suo padre Giovanni morì mentre trattava l’acquisto di un terreno per un amico — è tra quelli che del «raccontare per non dimenticare» hanno fatto il proprio scopo di vita: «Non ho mai perso una sola udienza in quarant’anni. Salvo quelle di Catanzaro: chissà se chi tolse il processo a Milano, allora, si pose il problema delle diciassette ore di treno che infliggeva a noi». Eppure c’è chi non rinunciò a inghiottirsi anche quelle.
Fortunato Zinni era là in banca anche lui, quel 12 dicembre. Come sempre allo sportello 15: era il suo posto di lavoro. In realtà non rimase né ucciso né ferito: oggi è sindaco di Bresso, nell’hinterland nord di Milano. Tuttavia lui e tanti altri come lui fanno parte di quell’altra categoria di «vittime» che le statistiche delle stragi non contano mai perché impossibile è contarli: sopravvissuti, testimoni, cittadini che «c’erano», e anche i tanti che non c’erano. Magari non vittime dirette della bomba: ma di quella oscura «strategia» loro sì, altroché. «Io ci sono stato diverse volte — dice Zinni — alle udienze di Catanzaro. Ricordo che dalla stazione all’aula delle udienze erano chilometri in salita, fuori città. E quelli come noi dovevano farsela a piedi perché i taxisti portavano solo i giornalisti: ‘Clienti migliori di voi’, dicevano». Quanta parte di opinione pubblica e per quanto tempo, continua Zinni, fu appunto «vittima» non della bomba ma di una «informazione che alla storia dei ‘mostri anarchici’ diede non solo credito ma spazio e appoggio?». «Io per esempio ero solo un ragazzo — dice Arnoldi — e all’inizio ci avevo creduto anche io, che a mettere la bomba fosse stato l’anarchico Valpreda. Finché non l’ho visto in faccia durante un’udienza, mi sembra nel ’72. Mi è sembrato solo un poverocristo. E solo a quel punto ho cominciato a chiedermi: possibile?». Diciassette vittime di una bomba, un’intera nazione di una bugia di Stato. Così l’elenco delle amarezze, come una maledizione, a volte risucchia anche i pochi squarci luminosi che pure ogni tanto si aprono. Per dire: oggi a mezzogiorno i parenti di quei morti incontreranno a Milano il presidente Napolitano, giusto? «Sì, e naturalmente lo ringrazieremo. Peccato solo che il 12, il giorno dell’anniversario, anche lui come gli altri non ci sarà». Anche ? «Infatti. Sembra incredibile: ma mai una volta in quarant’anni, mai, che un presidente della Repubblica sia venuto a Milano il giorno esatto della Strage. Bizzarro, no?».
Dettagli, naturalmente. Ma per chi sulla «memoria» ha cercato di ricostruirsi la vita hanno un peso. Il punto è che loro non si arrendono, anzi. «Perché se è vero che la magistratura — ricorda Arnoldi — non è riuscita a condannare nessuno ci ha tuttavia dato una verità storica certa: con fatti, nomi e cognomi. Le sentenze ci hanno comunque detto che in Italia c’è stato un gruppo neofascista che, con la copertura di un pezzo di Stato, un giorno ha fatto una strage per far ricadere la colpa su gente che non c’entrava, e giustificare così una repressione di destra. Questa è storia. E il nostro compito è trasmetterla a chi non la sa». Lo fanno da anni, nelle scuole: è la loro nuova «tensione», rovesciata sul futuro. «Quando arriviamo e chiediamo ai ragazzi cosa sanno di piazza Fontana — dice Paolo Dendena — molti la collegano alle Brigate rosse. Allora noi gli raccontiamo. E ogni volta non smetterebbero più di chiedere ». Sua figlia Federica, la terza generazione del dopo-bomba, si sta laureando in Giurisprudenza alla Cattolica. Il titolo della sua tesi è «Piazza Fontana 40 anni dopo. Analisi della sentenza finale di Cassazione». Dice: «Adesso tocca a noi. Perché quarant’anni è un sacco di tempo. E se non ci muoviamo noi chi testimonierà per i testimoni, quando loro non ci saranno più?».
Il Corriere della Sera 07.12.09
******
Il presidente a Milano incontra i familiari delle vittime di piazza Fontana: «Una lezione che non va dimenticata», presenti Mario Calabresi, figlio del commissario, e Licia Pinelli, vedova dell’anarchico. Napolitano: «Stragi, non è tutto chiaro»
MILANO – «Nelle stragi italiani non tutto è chiaro e limpido». Lo ha detto il presidente Giorgio Napolitano, a Milano per incontrare i familiari delle vittime della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, di cui sabato ricorre il 40esimo anniversario.
«NON TUTTO CHIARO» – «Ammiro il vostro impegno, la vostra tenacia in questi 40 anni, la passione civile, l’impegno che mostrate per alimentare la memoria collettiva e la riflessione, due cose alle quali l’Italia e la coscienza nazionale non possono abdicare – ha detto il presidente -. Quello che avete vissuto voi mi auguro diventi parte della coscienza nazionale. Ho già detto che comprendo il peso che la verità negata rappresenta per ciascuno di voi, un peso che lo Stato italiano porta su di sé». «La riflessione – ha aggiunto – è necessaria perché ciò che è avvenuto nella nostra società non è del tutto chiaro e limpido e non è del tutto stato maturato. Continuate a operare per recuperare ogni elemento di verità, io vi sarò sempre vicino e vi rinnovo solidarietà e ammirazione».
«LEZIONE DA RICORDARE» – La strage di piazza Fontana, ha detto ancora il presidente, ci ha consegnato «una lezione che non dobbiamo mai dimenticare, ci insegna che dobbiamo evitare che in Italia i contrasti e le legittime divergenze possano sfociare in tensioni tali da minacciare la vita civile». In Prefettura erano presenti anche Mario Calabresi, direttore de La Stampa e figlio del commissario Luigi Calabresi ucciso negli anni ’70, e Licia Pinelli, la vedova dell’anarchico Giuseppe Pinelli. Napolitano ha sottolineato che questo incontro è la continuazione ideale del suo impegno, avviato il 9 maggio al Quirinale, con la celebrazione della seconda giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo: in quell’occasione riuscì a ottenere la presenza delle vedove del commissario Calabresi e dell’anarchico Pino Pinelli, che davanti a lui si scambiarono una stretta di mano in segno di conciliazione. «Il mio impegno è quello di chiedere giustizia per tutte le vittime del terrorismo. Mi chiedo se in altri Paesi fatti come quelli vissuti in Italia tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’80, quelli del terrorismo prima subdolo e poi ideologicamente dichiarato, si siano verificati. Credo si possa dire che molti Paesi abbiano consolidato la loro democrazia passando attraverso drammi simili». Nel pomeriggio il presidente assiste alla prima della Scala e martedì mattina visita la biblioteca Ambrosiana.
Il Corriere della Sera 07.12.09
******
Il monito di Napolitano «Contrasti e divergenze non minaccino la vita civile»
La strage di Piazza Fontana ci ha consegnato «una lezione che non dobbiamo mai dimenticare, ci insegna che dobbiamo evitare che in Italia i contrasti e le legittime divergenze possano sfociare in tensioni tali da minacciare la vita civile». Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano incontrando, alla prefettura di Milano, i familiari delle vittime delle stragi terroristiche.
«Mi auguro che quello che avete vissuto poi diventi parte della coscienza nazionale, la riflessione è necessaria perchè non tutto quello che è avvenuto nella nostra società è chiaro e limpido». Napolitano ha aggiunto che sarà «sempre vicino e solidale» con i familiari delle vittime e che «bisogna operare per recupare ogni elemento di verità». «Ammiro il vostro impegno, la vostra tenacia in questi 40 anni, la passione civile, l’impegno che mostrate per alimentare la memoria collettiva e la riflessione, due cose alle quali l’Italia e la coscienza nazionale non possono abdicare. Quello che avete vissuto voi – ha osservato – mi auguro diventi parte della coscienza nazionale. Ho già detto il 9 maggio scorso che comprendo il peso che la verità negata rappresenta per ciascuno di voi, un peso che lo Stato italiano porta su di sé».
Napolitano ha sottolineato che questo incontro è la continuazione ideale del suo impegno, avviato il 9 maggio scorso al Quirinale, con la celebrazione della seconda giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo, incontro nel quale riuscì a ottenere la presenza della vedova del commissario Luigi Calabresi e della vedova dell’anarchico Pino Pinelli, che davanti a lui si scambiarono una stretta di mano in segno di conciliazione. «Il mio impegno è quello di chiedere giustizia per tutte le vittime del terrorismo, non solo nelle sedi giudiziarie ma riparazione alla Nazione. Il 9 maggio ho voluto trasmettere questo mio sentimento. Ho parlato della strage di Piazza Fontana e ho voluto ascoltare le vostre voci. È importante – ha detto riferendosi alla stretta di mano tra Gemma Calabresi e Licia Pinelli, quest’ultima presente in prefettura – conoscere il vostro sentimento per riavvicinare due persone che hanno rappresentato in modo emblematico la drammaticità di quegli eventi».
«Mi chiedo se in altri paesi fatti come quelli vissuti in Italia tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’80, quelli del terrorismo prima subdolo e poi ideologicamente dichiarato, si siano verificati. Credo si possa dire che molti paesi abbiano consolidato la loro democrazia passando attraverso drammi simili. Si può dire anche per gli Stati Uniti, dove c’è stato l’assassinio del presidente e ancora non tutte le ombre su quel delitto sono state dissipate. Ma nulla di tutto ciò può togliere a noi la drammaticità della ferita inferta dal terrorismo, che ha lasciato interrogativi angosciosi e una lezione da seguire per evitare i fatti di cui voi conservate i segni della sofferenza».
L’Unità 07.12.09