economia, lavoro

“Una finanziaria contro il lavoro”, di Alfonso Gianni

I disoccupati nel nostro paese hanno varcato la soglia dei due milioni di persone e se aggiungiamo a questa cifra anche i lavoratori attualmente in Cassa Integrazione a zero ore, circa mezzo milione, si vedrà che il tasso di disoccupazione italiano è in linea, se non peggiore di quello europeo.
L’insieme di questi dati ci parla di una caduta occupazionale che non solo non si è fermata, ma farà sentire i suoi effetti negativi soprattutto nell’anno entrante, quando gli ammortizzatori andranno a scadenza. Ma la legge finanziaria, attualmente in discussione in Parlamento, di tutto ciò non si occupa. Per questo progettare e battersi per una politica di piena occupazione è oggi una delle chiavi di una proposta di uscita dalla crisi da sinistra.

“L’unica funzione delle previsioni economiche è di fare sembrare rispettabile l’astrologia” così scriveva John Kenneth Galbraith nei primi anni Duemila dopo l’attentato alle Torri Gemelle e lo scoppio della bolla di Internet. Un’amara conclusione posta in epigrafe alla lunga e brillante vita del grande (non solo perchè molto alto come egli amava ironizzare) economista americano. Insomma Branko, quello della seguitissima rubrica telefonica Branko e le stelle, può sentirsi un fenomeno, almeno nei confronti di quello stuolo di economisti che da settimane sostengono che ormai abbiamo la crisi alle spalle e il peggio sarebbe già passato. A smentirli, e duramente, ci ha pensato l’Istat con l’inaugurazione di una buona e attesa iniziativa, la periodizzazione mensile delle indagini sulla forza lavoro.

Risulta così che i disoccupati nel nostro paese hanno varcato la soglia dei due milioni di persone, passando da un tasso di disoccupazione che a luglio era fermo al 7,6% all’8% di ottobre. Naturalmente i nostri ministri, in primis Sacconi, si sono affannati a dire che pur non essendo un dato brillante è comunque migliore del dato europeo che ormai va approssimandosi al 10%. Ma se aggiungessimo a quella cifra anche i lavoratori attualmente in Cassa Integrazione a zero ore, circa mezzo milione, che purtroppo fra non molto vedranno venire meno anche questa misera forma di sostegno al reddito, si vedrà che il tasso di disoccupazione italiano è in linea, se non peggiore di quello europeo. Infatti il dato più inquietante è che con 717 milioni di ore di cassa integrazione utilizzate fino ad ottobre si è superato il record del 1993 e secondo alcuni economisti, come Tito Boeri, non è affatto improbabile che verrà polverizzato il massimo storico assoluto toccato nel lontano 1984. Ma i guai non si fermano qui. Molte persone non figurano neppure più nelle statistiche della disoccupazione perché hanno rinunciato a cercare attivamente lavoro perché sfiduciate dall’impossibilità di trovarlo. Il tasso disoccupazione giovanile è di ben 6 punti superiore a quello medio nell’Eurozona, mentre il tasso di occupazione femminile è ben al di sotto del 50% (per l’esattezza il 46,6%) più del venti per cento inferiore a quello maschile, dunque lontanissimo dagli obiettivi occupazionali di Lisbona.

L’insieme di questi dati ci parla di una caduta occupazionale che non solo non si è fermata, ma farà sentire i suoi effetti negativi soprattutto nell’anno entrante, quando gli ammortizzatori andranno a scadenza. Inoltre la discrepanza tra aumento costante della disoccupazione e leggeri e timidi segnali di inversione di tendenza nel Pil, peraltro lontani da indurre ottimismo sulla uscita dalla crisi, dimostrano che la scissione fra crescita economica e incremento occupazionale si è ancora più accentuata che nel passato.
Nel caso italiano questo è ancora più evidente data la debolezza cronica del nostro apparato produttivo. Se poi a questo male antico si aggiunge anche il drastico ridimensionamento della produzione automobilistica nel territorio nazionale e la chiusura delle linee produttive di interi stabilimenti, come quello di Termini Imprese, a fronte di troppo vaghe proposte di riconversione produttiva, il quadro diventa, diversamente dalla celebre battuta di Ennio Flaiano, sia serio che drammatico.

Ma la legge finanziaria, attualmente in discussione in Parlamento, di tutto ciò non si occupa. Anche se, come avevamo previsto fin dall’inizio, si è venuta via via ingrossando con la solita pletora di emendamenti governativi e della maggioranza, dimostrando ancora una volta che ormai il testo che viene originariamente presentato non è che una copertina di un libro interamente da scrivere. E su cui di solito si pone la fiducia, come è avvenuto in questi anni.
In realtà questa manovra economica non ha respiro perché discende dal piano triennale varato dal governo prima che la crisi economica esplodesse. La sua ispirazione è quindi pro e non anticiclica, è restrittiva in una situazione nella quale bisognerebbe fare esattamente il contrario. Era chiaro anche a un neofita che non siamo di fronte a difficoltà congiunturali di mercato, ma alla più grande crisi economica mondiale da ottanta anni a questo parte. Era evidente che la perdita di posti di lavoro derivava da chiusure di intere unità produttive, quindi non recuperabile da un semplice riaggiustamento favorevole della congiuntura internazionale. Era chiaro che l’Italia entrava in questa crisi mondiale partendo da una posizione di debolezza del proprio apparato produttivo maggiore rispetto ad altri paesi, per cui c’era poco da consolarsi con il dato del minore indebitamento delle famiglie italiane. Tutto questo era chiaro, ma il governo ha voluto negare l’evidenza e spandere messaggi rassicuranti via via seppelliti dai dati allarmanti di un quadro economico reale in peggioramento continuo.

Per questo progettare e battersi per una politica di piena occupazione è oggi una delle chiavi di una proposta di uscita dalla crisi da sinistra. Questa comporta innanzitutto impedire il dilagare dei licenziamenti, operandone il blocco sulla base di un allargamento degli ammortizzatori sociali a disposizione e cancellare le norme che moltiplicano la precarietà. Ma questo frenerebbe solo l’emorragia senza curare la malattia. Necessita una nuova politica di intervento pubblico nell’economia, proprio in quei settori innovativi che sono a redditività differita, ma contengono possibilità di sviluppo economico e occupazionale ben maggiori di altri.
Il settore delle energie alternative è un esempio chiaro in questo senso. Per questo la stessa possibilità di superare la crisi a livello mondiale è legata al filo, purtroppo esilissimo e sempre sul punto di spezzarsi, degli esiti della conferenza di Copenhagen. Serve quindi un rilancio della spesa pubblica. Il problema del debito pubblico e del rispetto dei vincoli di Maastricht, che ormai più nessuno rispetta, non può essere un tabù.
Ma soprattutto bisogna incrementare le entrate attraverso uno spostamento del peso fiscale dal lavoro alla rendita. Bisogna perciò portare la tassazione delle rendite finanziarie almeno al 20%, in linea con le medie europee. Bisogna introdurre una tassazione patrimoniale dalla quale non possano sfuggire le grandi ricchezze. Come si vede l’esatto contrario dello scudo fiscale protetto dall’anonimato. Bisogna rilanciare la domanda favorendo l’incremento delle retribuzioni per via contrattuale e istituendo finalmente forme universali di protezione del reddito, come un salario sociale per i disoccupati e i giovani inoccupati.
Vasto programma si dirà. E’ vero. Le idee non mancano. Ciò che manca è la capacità di costruire uno schieramento di opposizione attorno a questi obiettivi essenziali. Anche perché, forse, l’antiberlusconismo superficiale (quello alla Di Pietro per intenderci) è come l’oroscopo di Branko: un’arma di distrazione di massa.
Aprileonline

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