cultura

“Rivoluzione americana”, di Nadia Urbinati

I paesi europei hanno fatto una gran fatica ad accettare di vivere con chi prega uno stesso dio in una maniera diversa da quella della maggioranza. I cristiani si sono massacrati tra loro per disaccordi su che cosa fossero i sacramenti e se credevano o no nel mistero della transustanziazione o della trinità. Nel Cinquecento, dopo la grande disubbidienza di Lutero, teologi riformati e cattolici si impegnarono in diversi concilii a ristabilire la concordia, a superare cioè tutte le divisioni per non aver più bisogno di tollerarsi a vicenda. Tolleranza era una parola negativa come il “sopportare” chi era nel torto. La verità era una e una doveva essere la religione praticata in un paese: si tollerava provvisoriamente, in attesa della nuova grande unità cristiana.
Ma mentre i teologi cercavo invano di superare i loro dissidi dogmatici con l´arte della parola, i monarchi e i principi dovevano in qualche modo impedire le violenze tra cattolici, calvinisti e protestanti. Con editti provvisori l´autorità secolare concedeva ai fedeli di un credo minoritario di comunicarsi a loro modo, di sposarsi e di partecipare alle funzioni religiose, di essere cioè non soltanto credenti in cuor loro, ma anche praticanti. Era il primo passo verso il riconoscimento della libertà religiosa – un passo molto incerto e che non riuscì a scongiurare il massacro di San Bartolomeo e le guerre religiose.
La formula “un re, una fede” (cuius regio, eius religio), coniata a metà Cinquecento proprio per giustificare una politica di pacificazione in attesa di ristabilire l´unita cristiana, fu per almeno due secoli e mezzo la migliore soluzione che gli stati europei escogitarono per non massacrarsi nel nome di un dio o di un dogma. La formula escludeva mescolanza di credenti e divideva territorialmente le religioni: ciascuna chiesa nel proprio fazzoletto di terra e con un proprio re. La libertà e la pace potevano esistere solo tra eguali. Dio segnava i confini degli stati – chiese cattoliche non erano ben viste in terra protestante e viceversa. Questa idea è stata messa in crisi dalla Rivoluzione americana che con il primo emendamento alla costituzione riconosceva la libertà religiosa come libertà degli individui, escludendo sia l´interferenza dello stato sia il riconoscimento di chiese e confessioni. La tolleranza del diverso lasciava il posto al diritto di essere come si sceglieva purché si rispettasse la libera scelta altrui. La ben nota teoria del “muro” di divisione tra stato e chiesa era la grande innovazione americana.
A leggere le cronache di questi giorni sembra di essere ritornati al Cinquecento: appartenere ad un credo diverso da quello della maggioranza è rischioso. La differenza è che mentre nel Cinquecento la furia di omogeneità si abbatteva sulle denominazioni cristiane oggi si abbatte su alcune religioni non cristiane. In Svizzera, dove per anni gli italiani sono stati paria e ghettizzati, oggi è la volta dei mussulmani: la divinità politica del popolo (vox populi, vox dei) ha decretato per referendum come chi vive sul suolo svizzero può o non può pregare (si comprende bene perché le autorità cattoliche si siano schierate con la libertà di religione; mentre si deve apprezzare la loro solidarietà ai mussulmani non si può però non far loro presente che esse stesse si fanno complici di questa logica quando accettano che dei politici decidano che il crocifisso è un simbolo culturale della nazione italiana). Questo brutto giuoco alla pulizia religiosa piace molto ai leghisti nostrani, i quali vorrebbero inseguire il sogno di “tutti uguali in questo paese”: “una fede, un re”. Non per devozione ma per fanatica interpretazione dell´identità collettiva. Quattro secoli e mezzo fa questa ubriacatura di omogeneità religiosa fece del vecchio continente un mattatoio
La Repubblica 03.12.09