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“Le due destre”, di Massimo Giannini

C’erano due modi per disinnescare la bomba atomica del fuorionda in cui Gianfranco Fini dà del monarca a Silvio Berlusconi, e marca la distanza irriducibile tra la sua idea di destra e quella del Cavaliere. Il primo modo era usare il buonsenso: prendere atto di quella distanza, che non è certo nuova ma risale addirittura al congresso fondativo del Pdl, e colmarla con la valorizzazione delle differenze, necessarie e vitali in un partito che si vuole pluralista e di massa. Il secondo modo era usare la clava: cogliere l’occasione di un incidente sia pure sgradevole, ma di per sé non così destabilizzante, per bastonare e regolare una volta per tutte i conti con quello che evidentemente non si considera più un alleato, ma un avversario. Non più il co-fondatore del Popolo delle libertà, ma l’eversore del partito unico del centrodestra.

Non sappiamo ancora quale linea ufficiale abbia scelto e sceglierà il presidente del Consiglio. Al di là della solita “ira” che lascia trapelare attraverso la sua corte, il premier non si è ancora espresso sul piano formale, per dire la sua sulle esternazioni sfuggite al presidente della Camera a L’Aquila. Ma due segnali lasciano pensare che il Cavaliere propenda per un drammatico e traumatico “redde rationem”.

Intanto, le parole meditate di Claudio Scajola, che afferma chiaramente che Fini è ormai lontano dallo spirito identitario e dalla constituency politica del Pdl. E poi il titolo del Tg1 di ieri sera che, amplificando quello dei giornali di famiglia usciti ieri mattina (“Fini chiarisca o si dimetta”) parla testualmente di “ultimatum” al presidente della Camera.
È vero che due indizi non fanno una prova. Ma è altrettanto vero che questi segnali contano e pesano. Scajola è un ministro di rilievo, oltre che dirigente di spicco dell’ex Forza Italia: non appartiene alla claque dei Cicchitto e dei Capezzone, dei Gasparri e dei Quagliarello, “reagenti” di professione incaricati della dichiarazione quotidiana da infilare nei pastoni televisivi. E il Tg1 di Minzolini, come dimostra precedenti inequivoci (dalle omissioni sulle escort alle suggestioni sull’immunità parlamentare) si può considerare a tutti gli effetti “l’organo ufficiale” del partito del presidente, che non incede nella grottesca agiografia del Tg4 di Emilio Fede, ma interpreta l’ortodossia ideologica e anticipa la linea politica del Pdl di rito arcoriano.

Dunque, il combinato disposto di questi fattori lascia pensare che per Fini sia cominciata, o stia per cominciare una sorta di “purga berlusconiana”.
Come si addice al partito-caserma, l’unico che il presidente del Consiglio concepisce e che il presidente della Camera aborrisce. Come è logico per la muta famelica di cani che da giorni, in Transatlantico e sui giornali-cognati, ha lanciato la caccia a Fini sospettandolo di criminale complotto e di altro tradimento, e che ora sente, nelle sue frasi pronunciate a ruota libera in quel famigerato fuori onda, l’eco di una profezia che si autoavvera.

Ma se questo è il disegno, cacciare il “mercante” dal tempio dell’unto del Signore, bisogna dire che l’operazione è insieme avventurosa e pericolosa.
Avventurosa, perché Fini è pur sempre la terza carica dello Stato, e dal modo in cui ha messo in riga il livido Bondi a Ballarò è evidente che l’uomo non rinuncerà mai a far vivere la sua idea alternativa di centrodestra, incontrando su questo un consenso nel Paese e un sostegno nel partito, per quanto, per ora, entrambi minoritari.

Operazione pericolosa, perché il Pdl senza il co-fondatore Fini diventa, sul piano culturale e sociale, il partito di una destra a trazione esclusivamente forza leghista, esasperata ed esagitata, che non ha eguali in Occidente e non ha paragoni nelle famiglie del popolarismo europeo. Un partito estremista e populista, che si chiude nella sua ridotta identitaria, padana e neanche più tanto sudista, e si preclude ogni possibile riapertura di gioco con il centro di Casini, difficilmente spendibile per sostituire Fini nel ruolo di stampella di un Cavaliere sempre più azzoppato.

Berlusconi farà bene a ponderare le sue mosse. La sua destra, rivoluzionaria e plebiscitaria, può anche vincere questa partita interna. Ma i fatti stanno dimostrando che l’altra destra, quella di Fini, istituzionale, laica e repubblicana, sta comunque saldamente in campo, e se non qui ed ora rappresenta comunque un’alternativa possibile.

Anche per il governo del Paese. Per quello futuro, ovviamente. Da quello attuale lacerato e disperato com’è, non c’è da aspettarsi più nulla, se non una rissosa e rovinosa sopravvivenza. E questo, per l’Italia, è davvero un prezzo troppo alto da pagare. Aveva detto bene il presidente della Repubblicano Giorgio Napolitano: solo la maggioranza può uccidere la maggioranza. È quello che sta accadendo in questo avvelenato clima da 25 luglio 1943: un lento, inesorabile suicidio politico.
La Repubblica 03.12.09