Pur largamente prevedibili, gli ultimi dati Istat sulle forze di lavoro fanno un certo effetto: erano anni che il numero di persone in cerca di occupazione non superava i due milioni, l’8% in termini relativi. È vero che siamo ancora al di sotto della media Ue (9,3%).
Preoccupa però la composizione interna della nostra disoccupazione, che colpisce con intensità crescente le donne e i giovani. Il modello della «flessibilità senza rete di sicurezza» su cui hanno puntato i vari governi a partire dal 1997 mostra oggi tutti i suoi limiti:
centinaia di migliaia di lavoratori atipici hanno già perso il posto di lavoro, ampliando quell’esercito di outsider per i quali il nostro sistema di welfare prevede solo qualche briciola. Come hanno documentato le inchieste di Dario Di Vico, tra le fila di questo esercito sta finendo anche un numero crescente di lavoratori in passato relativamente «sicuri»: artigiani, piccoli produttori, persino alcune figure di liberi professionisti. Grazie alla Cassa integrazione, l’occupazione delle imprese di medie e grandi dimensioni ha retto sinora abbastanza bene. Ma per uscire dalla crisi il sistema produttivo italiano ha intrapreso un percorso non facile di ristrutturazione, che avrà effetti diffusi e prolungati sui livelli occupazionali di tutti i settori.
Che fare? Il primo e più urgente obiettivo non può che essere la gestione dell’emergenza, attraverso un potenziamento degli ammortizzatori sociali anche tramite ulteriori deroghe volte a sostenere il reddito delle categorie più deboli. Il governo sembra pronto a muovere in questa direzione già con la Finanziaria ora all’esame del Parlamento. Dato il carattere chiaramente strutturale della crisi in atto, vi sono però almeno due altri passi da compiere, dopo un rapido ma articolato esercizio di progettazione istituzionale. Il primo passo è una riforma organica della nostra politica del lavoro, finalmente capace di realizzare quella combinazione tra misure attive e passive di salvaguardia dell’occupazione che è diventata la norma nei principali Paesi Ue.
Tra i tanti traguardi mancati della strategia di Lisbona, questo è stato forse il più clamoroso e dannoso: dobbiamo recuperare al più presto il terreno perduto.
Il secondo e più difficile passo è l’individuazione (e poi l’avvio) di un percorso di riconfigurazione del nostro modello economico e sociale per adeguarlo ai nuovi parametri del dopo crisi. Quando inizierà la ripresa, l’Italia rischia di ricadere nella trappola di una crescita (peraltro modesta) senza occupazione, come già avvenne durante lo scorso decennio. Anche altri Paesi europei corrono questo rischio, ma lì il lavoro di progettazione è già ben avviato. L’Unione europea sta scaldando i motori di una nuova strategia decennale volta a creare un’«economia più intelligente, più interconnessa e più verde »: l’obiettivo è proprio quello di rilanciare la competitività e insieme l’occupazione nel nuovo quadro globale.
A chi ha perso il posto di lavoro e fa fatica ad arrivare a fine mese, un dibattito come questo può suonare come una poco utile fuga in avanti. Senza progetti di largo respiro e senza riforme, il dramma della disoccupazione rischia però di avvitarsi in una spirale di impoverimento e declino collettivo, con effetti di lungo periodo e forse irreversibili.
Il Corriere della Sera, 2 dicembre 2009
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Più di 2 milioni di disoccupati E’ record dal marzo del 2004
ROMA – Più di due milioni di disoccupati in Italia: è la prima volta dal marzo del 2004 che l’Istat rileva un numero così elevato di senza lavoro. A ottobre il tasso di disoccupazione è salito all’8% dal 7,8% di settembre. Il numero delle persone in cerca di lavoro è di 2.004.000, in aumento del 2% ( 39mila persone) rispetto a settembre e del 13,4% ( 236mila) su base annua. Il tasso di disoccupazione giovanile – aggiunge l’istituto di statistica – a ottobre è aumentato al 26,9% dal 26,2% di settembre.
Sono 14.741.000, con un aumento di 210.000 unità rispetto all’ottobre 2008, gli ‘inattivi’, che per la statistica sono i non occupati che nelle quattro settimane che precedono l’indagine non hanno effettuato neanche un’azione attiva di ricerca di lavoro (categoria ampia che include gli studenti, le casalinghe, ma anche i cosiddetti ‘scoraggiati’, cioè i disoccupati di lungo corso che ormai non cercano più lavoro perché si sono convinti che non lo troveranno). Il tasso di inattività è pari al 37,4 per cento, invariato rispetto al mese precedente e in aumento dello 0,4 per cento su base annua.
Penalizzata l’occupazione femminile. Infatti l’occupazione maschile a ottobre 2009 è pari a 13.801.000 unità, con un incremento dello 0,2 per cento rispetto al mese precedente ( 31 mila unità) e una riduzione dell’1,5 per cento (-217 mila unità) rispetto al corrispondente mese dell’anno precedente. L’occupazione femminile raggiunge le 9.298.000 unità, con una riduzione rispetto a settembre dello 0,3 per cento (-30 mila unità) e dello 0,7 per cento (-67 mila unità) rispetto ad ottobre 2008.
Dati che riflettono sicuramente la crisi economica, commenta il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola, ma dai quali non emerge una situazione disastrosa rispetto al resto dell’Europa. “E’ molto meglio della media Ue e degli altri Paesi”, osserva il ministro.
Il tasso di disoccupazione dell’Eurozona a ottobre (dato diffuso oggi da Eurostat) è al 9,8%; 9,3% quello dell’Unione Europea. Ma la situazione si ribalta per quanto riguarda i giovani: a ottobre nell’Eurozona è risultata il tasso di disoccupazione giovanile è risultato pari al 20,6%, decisamente inferiore a quello dell’Italia, dove si viaggia al 26,9%.
Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani, sottolinea come con due milioni di disoccupati l’Italia sia tornata indietro di sei anni: “Due milioni di disoccupati, un balzo indietro di sei anni: i dati Istat sull’occupazione confermano in maniera evidente quello che gli italiani sanno bene per esperienza, che la crisi picchia duro e colpisce i lavoratori, i giovani precari, le imprese specie quelle piccole. In prospettiva il dato è ancora più allarmante se si considera il numero senza precedenti dei lavoratori in cassa integrazione”.
“Speriamo che il governo la smetta di dire che le cose vanno bene e prenda atto dei problemi. – aggiunge Bersani – Noi, già con la mobilitazione dell’11 e del 12, che ha al suo centro il tema del lavoro, porteremo in piazza le proteste e le preoccupazioni dei cittadini insieme a proposte concrete per difendere il lavoro e dare una spinta reale all’uscita dalla crisi”.
La Repubblica, 2 dicembre 2009
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“Crescono gli sfiduciati. Altri duecentomila non cercano più lavoro”, di Roberto Mania
ROMA – Nella crisi c´è chi perde il lavoro, chi non lo trova più e chi rinuncia a cercarlo, perché si è scoraggiato. La recessione significa anche questo. Nei tre anni che hanno preceduto la recessione la quota di “scoraggiati” italiani è andata progressivamente diminuendo, in un mercato del lavoro che sembrava galoppare per quanto spinto da una massa abnorme di contratti di lavoro atipici. Ora è cominciata – purtroppo – l´inversione: in un anno, da ottobre 2008 a ottobre 2009, gli inattivi (così le statistiche mondiali chiamano gli scoraggiati) sono cresciuti di 210 mila unità, praticamente quanto i nuovi disoccupati. È una delle tante facce della crisi.
Certo l´indagine dell´Istat (che per la prima volta rende noti i dati mensili delle forze lavoro) non rivela quanti di quei 200 mila lavoratori provengano o dalla disoccupazione o dal lavoro, o quanti siano i pensionati o le nuove casalinghe. Ma il fatto che la percentuale di inattivi sia aumentata in un anno dell´1,4, quando la corsa ai pensionamenti di anzianità si è fortemente arrestata, è di sicuro un campanello d´allarme sociale, tanto più che ad alimentare questa categoria sono soprattutto gli uomini. È una novità, ma anche una conferma che quel dato è in buona parte un effetto della crisi.
Gli uomini scoraggiati sono cresciuti del 2,4 per cento nell´arco di dodici mesi, pari a 121 mila unità. Tanti. Più delle donne meridionali che, insieme ai giovani, soprattutto del Mezzogiorno, sono sempre stati i soggetti più esposti al rischio di perdere la speranza di trovare un nuovo (o anche il primo) lavoro. In un anno le donne che non hanno fatto più nulla per trovare occupazione sono aumentate dello 0,9 per cento, pari a 88 mila persone. «Quello degli inattivi è un fenomeno che caratterizza tutte fasi recessive. È ovvio che sia così, anche se l´Italia continua ad avere un livello di inattività altissimo», dice Pietro Garibaldi, professore di Economica politica all´Università di Torino.
Ed è difficile negare che l´alto tasso di inattività finisca per avere un effetto perverso sul calcolo della disoccupazione. Perché da noi è tornata ai livelli del 2004 (l´8 per cento) e fa impressione riparlare di due milioni di disoccupati, ma va allo stesso tempo riconosciuto il fatto che siamo ancora lontani dal tasso a due cifre (oltre il 10 per cento) che si è abbattuto sugli Stati Uniti con i suoi 15 milioni di senza lavoro. «Abbiamo un tasso di disoccupazione inferiore alla media europea», ha detto ieri il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ed è vero visto che nell´area dell´euro la disoccupazione è in media del 9,8 per cento nell´Europa a 27 del 9,3 per cento. «Ma il nostro problema strutturale del mercato del lavoro è che pochissima gente lavora», osserva Garibaldi. Ed emerge anche dai dati di ieri dell´Istat: siamo ulteriormente scesi al 57,6 per cento (-0,9 per cento in un anno) contro una media europea che è oltre il 65 per cento.
C´è da capire se il rialzo della disoccupazione segnali anche la fase più acuta della crisi e se invece le prossime rilevazioni saranno ancora peggiori. «Intanto – sostiene Garibaldi – bisogna apprezzare la scelta dell´Istat di cominciare a comunicare mensilmente i dati sulle forze lavoro perché questo è il numero congiunturale più reale che ci sia. Più del Pil e anche della produzione industriale che riguarda solo una parte dell´economia». L´occupazione, dunque, per leggere l´andamento della crisi. Perché nei prossimi mesi si vedrà se i 500 mila circa posti di lavoro corrispondenti al ricorso in atto alla cassa integrazione saranno assorbiti dalle aziende oppure corrisponderanno ad esuberi. «In più – conclude Garibaldi – è necessario che l´Inps comunichi i dati sulle richieste dell´indennità di disoccupazione
L’Unità, 2 dicembre 2009
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