La prima cosa che sperimenta un giovane italiano laureato che cerca e trova lavoro all´estero è un senso di liberazione. Pur nelle difficoltà quotidiane della lingua, della mancanza di reti sociali di sostegno (almeno agli inizi), della perdita delle abitudini e contesti più noti e vicini, ciò che colpisce favorevolmente è l´esistenza di regole trasparenti, di meccanismi di selezione espliciti. Si percepisce di essere valutati e pesati per quanto si sa dimostrare di valere e sapere, non innanzittutto per le filiere cui si appartiene. Queste contano anche fuori Italia, si badi bene. Ma difficilmente possono prevalere del tutto sul merito e la competenza.
Un giovane ricercatore che lavora da anni in un istituto tedesco mi ha detto che non riesce a immaginare di poter provare a tornare in Italia per fare carriera. Gli manca il know how culturale e psicologico, inclusa la capacità di resistenza alle umiliazioni. Né ha voglia di apprenderlo.
Conosco molti studiosi, ma anche ingegneri o chimici che lavorano nell´industria, tecnici che lavorano nelle televisioni e così via, che sono riusciti ad ottenere una borsa di studio, un posto di ricercatore, o che sono stati assunti in Spagna, Germania, Inghilterra o Olanda semplicemente presentandosi con il proprio curriculum. È una esperienza così inebriante e nuova, così fuori da quanto ci si attende in Italia, che può persino indurre a sopravvalutare la trasparenza dei meccanismi. Ma che ha, appunto, un effetto liberatorio soprattutto a livello culturale e psicologico. E favorisce una presa di coscienza realistica delle proprie capacità e possibilità.
Per questo, negli ultimi anni, alla emigrazione dei lavoratori manuali, di coloro che fuggivano da un paese avaro di lavoro soprattutto per i più poveri, si è sostituita l´emigrazione di chi ha avuto il privilegio e la fortuna di buoni studi e di sostegni famigliari. Non perché i primi nel frattempo siano scomparsi, ma perché anche altrove non c´è più per loro domanda di lavoro, che invece si rivolge ai più istruiti e preparati.
È difficile quindi dissentire dalla amara analisi della situazione con cui i giovani si affacciano alla vita adulta nel nostro paese contenuta nella lettera di Celli pubblicata ieri su “Repubblica”. Non a caso ha provocato una reazione così forte tra i lettori. Anche chi critica le conseguenze che Celli ne trae – l´invito al figlio a lasciare l´Italia – in linea di massima non dissente dall´analisi, ma, appunto, dalle sue conclusioni. Del resto, echeggia analisi ben più sistematiche. Si pensi da ultimo a quella di Livi Bacci che tuttavia, dal titolo stesso del suo libro – Avanti giovani. Alla riscossa (il Mulino 2008) – segnala la possibilità, anzi la necessità, di una via diversa da quella dell´abbandono tout court di questo paese.
Perché la questione è proprio questa. Al di là delle, legittime, scelte individuali, dello sconforto che prende alla gola ogni volta che si accende la televisione o si apre il giornale la mattina per aggiornarci sulle ultime liti tra politici, sugli ultimi scandali, sulle ultime nomine, sull´ultima decisione a favore delle corporazioni, quella di andarsene è davvero l´unica indicazione che si può dare alle giovani generazioni? Ed è opportuno e giusto che la dia qualcuno che comunque appartiene all´élite dirigente? A me sembra che sarebbe più opportuno e giusto che, accanto all´invito ai giovani a darsi una mossa, a organizzare le forze per contare un po´ di più, anche la generazione dei padri e delle madri dovrebbe assumere qualche responsabilità in più per la situazione apparecchiata per i figli (e i nipoti). È necessario un nuovo patto tra le generazioni che non si limiti solo ai rapporti famigliari, tra nonni, genitori e figli, ma che si allarghi alla società nel suo complesso. Se pensiamo solo ai nostri figli davvero l´unica via è l´emigrazione. Ma che fare delle speranze, della fatica, anche dell´entusiasmo dei molti che non vogliono pensare che tutto sia perduto e che ogni giorno si danno da fare per dare il meglio di sé in condizioni difficili e per cercare di cambiare le cose? Li lasciamo al loro destino perché non è affare nostro, dei “nostri”? Uno dei mali del nostro paese è proprio questo scarto tra l´enorme solidarietà entro la famiglia e la scarsa responsabilità per la cosa pubblica, comune. È questo scarto che va colmato. È questo il luogo vero dell´azione politica.
La Repubblica, 1 dicembre 2009